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UTOPIA PIRATA. I RACCONTI DI BRUNO ARGENTO. E FORSE DI BRUCE STERLING...di Umberto Rossi

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Capita spesso di sentire invettive contro Urania. Traduzioni tagliate (ed è vero, purtroppo). Troppe ristampe (vabbè, ma se escono con una ristampa e quel romanzo ce l'hai già non comprarlo, no? Mica sei tenuto ad acquistare tutti i numeri). Poco spazio per gli italiani (se ne potrebbe discutere, comunque il Premio Urania sta sempre lì). Scelte poco coraggiose (ma se i lettori non premiano quelli che le scelte coraggiose le fanno, come pretendono poi che le faccia Urania?).
Personalmente sono poco interessato a queste polemiche. Un po' perché ormai la fantascienza che mi interessa me la leggo in inglese; un po' perché so che un gruppo editoriale grosso come Mondadori segue logiche di mercato, punto; un po' perché ultimamente la fantascienza italiana (che ovviamente leggo in italiano...) viene pubblicata altrove, magari senza neanche dire che di fantascienza si tratta. E poi, non è che la collana, una sorta di monumento fantascientista nazionale, la si può buttare tutta nel cassonetto per i suoi sbagli (veri o presunti); perché ogni tanto ne azzecca qualcuna, e anche di questo si dovrebbe tener conto.
A farmi comprare un numero di Urania (in digitale) è stato l'incrociarsi tra il mio interesse per la letteratura fantascientifica e una linea di ricerca che ho seguito di recente, quella sulla fantascienza in Italia. Un po' per la lettura della bella monografia di Giulia Iannuzzi (che raccomando sempre), un po' per la faticaccia di partecipare alla realizzazione di un numero speciale di Science-Fiction Studies sulla fantascienza italiana; un po' per essere incappato nella bella trilogia ucronica di Brizzi e negli affascinanti e inquietanti romanzi di Avoledo. Tutto un complesso di cause, come diceva Paolo Conte, che mi ha indotto a comprare il numero 1622 di Urania, intitolato Utopia pirata: I racconti di Bruno Argento.
Devo confessare che l'ho fatto anche perché qualcuno aveva sparato su questa raccolta di racconti ancor prima che uscisse, quindi senza averla neanche letta. E questa è proprio un'ingiustizia che un critico serio non può lasciare passare inosservata. Non si fa. Altrimenti scadiamo a livello di Bruno Vespa o Fabio Fazio e relativi talk-show.
La cosa che mi ha interessato subito è che Bruce Sterling, autore non soltanto statunitense ma texano (cioè statunitense due volte o forse pure tre), che ultimamente risiede a Torino, Italia, ha scritto i cinque racconti di questa raccolta (tre più corti, gli ultimi due quasi romanzi brevi) ambientandoli tutti nel nostro paese; tre a Torino, uno a Fiume, l'altro in qualche indeterminata località dell'Italia centrosettentrionale attorno al 1848. Ora, di scrittori americani non è che ne legga pochi, siano essi di fantascienza o meno; tra di essi quelli che ambientano anche solo scene dei loro romanzi in Italia non è che ve ne siano molti – anzi, siamo onesti, sono proprio pochini pochini. Tra le cose recenti mi viene in mente la sequenza veneziana di Contro il giorno di Thomas Pynchon, ma dalla pubblicazione di questo mastodontico romanzo (che ha una bella componente fantascientifica, tra l'altro) sono passati quasi dieci anni. Insomma, il nostro paese, checché ne dica Renzi, non è che se lo filano più di tanto, oltreatlantico. La mossa di Sterling, che ha addirittura inventato un suo avatar italiano, Bruno Argento (avrebbe dovuto essere Bruno Sterlina, ma mi sa che detto cognome non esiste da noi, e poi si vede che gli piace il Dario nazionale – no, non Tonani!), mi ha incuriosito. Per cui, scaricato l'ebook sul mio Kindle d'annata, mi sono buttato a leggere.
Be', ci sono diverse cose da dire. Non è più lo Sterling con grandiose ambizioni di space opera sofisticata La matrice spezzata (1985) – che però non reggeva il confronto con Iain Banks e la sua Cultura – né l'agente pubblicitario del cyberpunk; semmai sembra aver sviluppato il filone ucronico che parte dalla Macchina della realtà (1990), scritto a quattro mani con William Gibson (traduzione orrenda del titolo; dovrebbe essere semplicemente “Il motore differenziale”; le cose vanno chiamate col loro nome). Ma mentre in The Difference Engine (sarebbe il romanzo del '90...) l'atmosfera era freneticamente, ferocemente steampunk, e veramente punk nella sua martellante insistenza verbale, in questi racconti Sterling/Argento scrive ucronia “vecchio stile”, piuttosto italiana; mi viene il dubbio che si sia letto il Morselli di Contro-passato prossimo (oppure la trilogia di Brizzi, o quella di Farneti, o il dittico di Stocco; però questo mi pare un po' meno probabile).
Ma andiamo con ordine. Prima di tutto “Città esoterica”, racconto non proprio fantascientifico ma fantasy, un viaggio agli inferi di un dirigente della FIAT, tale Achille Occhietti (mi ricorda qualcuno... qualcuno neanche tanto lontano nel tempo, che ancora prende lo stipendione da eurodeputato, mi sa) che lì incontra (tra gli altri) la famiglia Agnelli versione acherontica (be', se c'è un inferno credo che se lo siano ampiamente meritato, come dissentire dall'idea di Sterling?). Non mi dilungo su questo pezzo d'apertura in quanto è il meno fantascientifico del quintetto, anche se Sterling tiene sempre d'occhio il mutamento tecnologico che innesca cambiamenti sociali (è il suo cavallo di battaglia), e ovviamente una città che da Capitale dell'Auto diventa Città della Cultura sembra proprio la dimostrazione di questa tesi. Ma prima di passare al secondo racconto, voglio aggiungere che qui, a differenza che nella Matrice spezzata (o nel bel racconto del 1983 “Stella rossa, orbita d'inverno” scritto sempre con Gibson), ha un tono ironico e indulge più alla commedia che alle visioni cosmiche o epiche. Questo è soprannaturale, sì, ma anche commedia all'italiana: Achille Occhietti l'avrebbe potuto interpretare Ugo Tognazzi.
“Cigno nero” è non soltanto ucronia, è anche fantascienza totale della varietà universi paralleli. Abbiamo il maldestro e in fin dei conti patetico Massimo Montaldo che salta da un universo all'altro con un dispositivo ipertecnologico, non per magia o per inspiegati fenomeni. E il Montaldo cerca pure di trarne profitto, contrabbandando tecnologie e conoscenze da un corso storico a quello accanto; come i memristori (che se non lo sapete sonoelementi circuitali nonlineari passivi, e se non avete capito, come non ho capito io, leggetevi il racconto, che Sterling lo spiega meglio), oppure notizie su quello che da noi è un noto politico mentre dall'altra parte è ricercato da tutte le polizie (non posso proprio dirvi chi, ma non date per scontato di aver capito a chi mi riferisco). Domanda: ma non potevano cominciare la raccolta con questo racconto? Come ouverture era per-fet-to!
Arriva poi "Il bisturi partenopeo" e Sterling cambia ancora registro. Siamo nei mesi immediatamente precedenti i moti del '48, nel bel mezzo del nostro Risorgimento. Praticamente un racconto storico, e neanche di storia alternativa: un giovane carbonaro napoletano deve compiere un omicidio politico (quello che se accade nel 1848 è un gesto patriottico, ma se accade oggi è terrorismo), ma all'ultimo minuto viene sostituito da un altro cospiratore; poi però deve correre a rifugiarsi nella tenuta di un ricco nobile carbonaro anche lui, dove incontra... ecco, qui il racconto storico si fa fantasy (non della varietà Signore degli anelli, eh?) e anche qui glisso per non rovinarvi la lettura, che è decisamente gradevole (e anche questo racconto mi spinge a chiedermi se Sterling non abbia per caso letto il meraviglioso Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino, per me il più bel romanzo risorgimentale in assoluto).
E veniamo ai due romanzi brevi: il primo, "Pellegrini del mondo rotondo", ci riporta a Torino, ma alla metà del Quattrocento. Una coppia di borghesi benestanti, che ha fatto i soldi con la propria locanda, e anche grazie ad amicizie altolocate (tanto che sono riusciti a far sposare la figlia con un nobile) sta per partire per Cipro. Cosa c'entra Cipro con Torino? Molto, come ci illustra Sterling, che qui dimostra di aver studiato a fondo l'intricata storia tardomedievale dell'aristocrazia piemontese, con un'accuratezza e un gusto per lo scavo negli angoli dimenticati del passato che mi ricorda il migliore Evangelisti dei tempi di Eymerich (che tutti speriamo ovviamente tornino al più presto). In realtà il viaggio della coppia rientra in un complicato intrigo internazionale che ha molto a che fare con la Terrasanta, ma anche col futuro della famiglia Savoia (sì, proprio quelli del tontolomeo che è andato pure a Sanremo), e con le macchinazioni delle grandi potenze europee d'allora. Manca solo il Magister che tortura qualcuno; ma il tono è teatrale, come nota giustamente Lippi nella sua postfazione, e la storia è una commedia, ma dalle innumerevoli ramificazioni che arrivano fino al presente.
Last but not least, come dicono quelli, "Utopia pirata". Siamo a Fiume nel 1920; la città è stata occupata da una banda di matti capitanata dal Vate, e cioè l'immaginifico Gabriele D'Annunzio. E questa è storia. Ma nella versione Argentiana dell'impresa fiumana, c'è una matta, un jolly, una carta a sorpresa, nella persona dell'ingegnere (e veterano della Grande Guerra) Lorenzo Secondari, che ha preso il controllo della fabbrica di siluri della città (sarebbe il Silurificio Whitehead, che nella nostra storia ha prodotto le torpedini che i nostri aerei lanciavano contro le navi inglesi durante il secondo conflitto mondiale). Secondari è un duro, è un mezzo matto, è un futurista, ed è un tecnico coi controfiocchi, tanto che comincia a sviluppare armi sempre più sofisticate; attorno a lui l'avventura fiumana si dipana con ritmo frenetico e genuinamente futurista (garantisco che certi passi del racconto mi ricordano l'arruffato memoriale bellico L'alcova d'acciaio del futurista capo, Filippo Tommaso Marinetti). L'elemento ucronico giunge con la morte di un importante personaggio politico più i successi tecnologici del silurificio, che portano al successo dell'impresa: Fiume non viene rimessa sotto il controllo della Società delle Nazioni, ma diventa una città stato piratesca, anarcoide e futurista, con tutta una serie di conseguenze alcune delle quali decisamente sorprendenti.
Tiriamo le somme. Sterling l'ho sempre ritenuto un giornalista genialoide prestato alla narrativa; non uno stilista raffinato come (per restare nella fantascienza) Ballard o Delany o Avoledo; né un talento narrativo assoluto e innovativo come Dick o Tiptree. Eppure qui s'è saputo destreggiare tra ucronia e fantasy, tra commedia e farsa futurista, e soprattutto ha dimostrato di avere un punto di vista sulla nostra storia sicuramente diverso dai nostri, ma non per questo irrilevante. Ogni tanto fa bene vedersi con gli occhi degli altri, e in questo caso gli occhi di Bruno Argento guardano un po' tutti noi, l'Italia di ieri, ma in controluce anche quella di oggi, e noialtri italiani. Si tratta di un esperimento degno d'attenzione, e che dovrebbe farci riflettere. Non sono sicuro che questi racconti e romanzi brevi siano Capolavori Che Durano Nel Tempo; ma sicuramente sono una lettura che, come si dice, stimola. Chissà che non stimoli anche qualcuno dei nostri a fare ancora i conti col nostro passato remoto e recente. In ogni caso, pur restando ben consapevole di tanti aspetti discutibili della gestione di Urania, questa volta mi sembra che vada apprezzato il coraggio di Argento/Sterling e anche di Lippi (che ha anche tradotto i racconti) nell'intraprendere questo esperimento di Italia alternativa.
E ora, in cauda venenum: tre sviste dell'autore o del traduttore. In “Pellegrini del mondo rotondo” si parla a un certo punto di un “volume illuminato di Ermete Trismegisto”; capisco che Trismegisto era uno scrittore esoterico, ma non aveva messo le lampadine nei suoi libri; trattasi di un volume miniato (com'era tipico allora). Inoltre, in “Utopia pirata” si dice che nella Grande guerra morirono cinque milioni di italiani. Ma no, furono cinquecentomila, e su questo dato concordano tutti gli storici di qualsivoglia paese. Neanche Francia e Inghilterra, che combatterono un anno più di noi su un fronte assai più lungo, arrivarono a cinque milioni di caduti. Infine, si dice che Benito Mussolini venne “colpito da una scheggia di cannone al fronte”; be', qui siamo nell'ucronico. Il Duce combatté al fronte come Bersagliere; venne ferito e congedato; ma le ferite vennero causate dall'esplosione di un proiettile di mortaio che stava maneggiando. Però, a ripensarci forse la seconda e la terza non sono topiche ma dettagli ucronici; la prima, proprio no. Non sono comunque queste tre cosette a farmi ricredere su Utopia pirata, che mi sento di consigliare.
Umberto Rossi

IL SIGNORE DELLA SVASTICA, OVVERO IL SOGNO DI FERRO DI NORMAN SPINRAD E ADOLF HITLER di Umberto Rossi

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Guardate, con questi titoli delle traduzioni uno diventa matto. Cerco di sgarbugliare questa ingarbugliata faccenda, perché il succo di questo strano, stranissimo, e geniale romanzo, uscito in America nel 1972, sta proprio nel gioco dei titoli.
Allora, torniamo ai primi anni settanta. Norman Spinrad, allora trentaduenne, fa uscire The Iron Dream. Questo stava scritto sulla copertina. In realtà, se aprite un'edizione di lingua inglese del romanzo, vi comincia subito a girare la testa, perché dopo la pagina col titolo e il nome di Spinrad trovate un pistolotto pubblicitario che qui traduco:
Fatevi trasportare da Adolf Hitler fino alla Terra di un futuro remoto, dove solo feric jaggar e la sua potente arma, il Comandante d'Acciaio, si frappongono tra i resti della vera umanità e l'annientamento per mano dei nefandi Dominatori e delle orde di mutanti senza intelletto che controllano completamente.
Un attimo... Adolf Hitler? Che avrebbe scritto cosa? Giri pagina e alla pagina dopo trovi il solito Profilo dell'autore. E quel che racconta è un po' strano. Anzi parecchio:
Adolf Hitler nacque in Austria il 20 aprile 1889. Da giovane emigrò in Germania e si arruolò nell'esercito tedesco durante la Grande guerra. Dopo il conflitto, si dedicò per breve tempo alla politica a Monaco prima di emigrare a New York nel 1919...
E se giri ancora la pagina, ti appare questo frontespizio:
IL SIGNORE
DELLA SVASTICA
un romanzo
di fantascienza
di
Adolf Hitler

Allora, chiariamo l'arcano: nella sua edizione originale The Iron Dreamcontiene il romanzo The Lord of the Swastika, di Adolf Hitler, e poi una postfazione scritta da un tal Homer Whipple nel 1959. Nell'edizione italiana, però, hanno tirato fuori il titolo del romanzo di Hitler e così facendo hanno attribuito il suo romanzo a Spinrad, cosa che quest'ultimo s'era guardato bene dal fare. Tenuto conto che la prima edizione italiana, risalente al 1976, venne pubblicata da Longanesi, una casa editrice che buttava leggermente a destra, non riesco a non pensare che si voleva la svastica in copertina per attirare lettori di una certa convinzione politica, che avrebbero apprezzato lo scritto del Führer. Come diceva sempre Zio Giulio, a pensà male se fa peccato, ma eccetera eccetera.
Spinrad, da parte sua, aveva tutti i motivi del mondo per non volere la svastica sulla copertina. In America nei primi anni Settanta di nazisti non ne mancavano: grotteschi, come quelli dell'Illinois presi in giro da John Landis nei Blues Brothers, ma anche seriamente minacciosi, come quelli che militavano tra gli Hell's Angels, o quelli ancora più feroci dell'Aryan Brotherhood, un'organizzazione criminale presente nelle carceri degli Stati Uniti e specializzata negli assassini di detenuti che non rispettano le ferree regole non scritte vigenti nei penitenziari. Spinrad tutto voleva fuor che essere confuso con gentaglia di tal fatta; ma, nonostante il titolo del romanzo di Hitler fosse riportato solo all'interno del volume, quando Il signore della svastica approdò in Germania (nel 1981) venne denunciato come diseducativo e messo all'indice l'anno dopo dal Dipartimento federale per gli scritti dannosi per la gioventù. Pur potendo essere stampata e venduta nelle librerie, la traduzione tedesca del romanzo di Spinrad non poteva essere pubblicizzata né esposta in vetrina o sugli scaffali. La casa editrice fece ricorso e lo vinse definitivamente nel 1987.
Insomma, un libro che un certo scandalo lo ha destato. Da un lato, riuscì a vincere il Nebula; ma quando Leslie Fiedler, uno dei più rispettati critici letterari americani (e uno dei pochi che non considerano affatto spazzatura la fantascienza), cercò di convincere gli altri giurati del National Book Award a far vincere The Iron Dream, non ebbe successo.
Del resto è anche vero che Il signore della svastica, cioè il romanzo nel romanzo, è un testo che richiede un lettore un po' addentro le convenzioni della fantascienza dei tempi d'oro per essere apprezzato appieno. Il gioco di Spinrad si articola su più livelli: innanzitutto, dobbiamo accettare l'idea di un mondo alternativo nel quale Hitler lascia la Germania nel 1919 per emigrare in America.  Il mancato führer diventa quindi illustratore di riviste di fantascienza (non ci dimentichiamo che aveva studiato le belle arti per qualche tempo prima della Grande guerra), entra nel giro del fandom (sempre detto che è un ambiente pericoloso...) e poi diventa scrittore.
Di fantascienza, ovviamente. Come si dice a Roma, se nun so matti nun ce li volemo. E pubblica in rapida successione una serie di opere i cui titoli (ovviamente inventati da Spinrad) sono troppo belli per non citarli tutti:
imperatore degli asteroidi
i costruttori di marte
lotta per le stelle
il crepuscolo della terra
redentore dallo spazio
la razza dei signori
il dominio millenario
il trionfo della volontà
domani i mondo
E già qui vediamo come funziona il gioco di Spinrad: dietro i titoli assai credibili di questi pulp novel, che già c'immaginiamo col blob in copertina intento a rapire qualche ragazza terrestre ben messa e poco vestita, si nascondono per esempio un celebre documentario di Leni Riefenstahl, che per l'appunto si chiama Il trionfo della volontà (1935), incentrato sul congresso del Partito Nazional-socialista che si tenne a Norimberga nel 1934; riconosciuto come capolavoro della cinematografia in bianco e nero, ma anche come autentica propaganda nazista senza se e senza ma. E Il dominio millenario (The Thousand Year Rule in originale) non può non far pensare al Reich millenario che Hitler voleva edificare in Europa; e gli ariani purosangue, guidati dal  führer, sarebbero stati una razza di signori, o come dice il titolo originale, The Master Race.
Altre caratteristiche del mondo alternativo dove non ci fu il nazismo, e neanche la Seconda guerra mondiale, le veniamo a conoscere soltanto alla fine, quando leggiamo la postfazione di Homer Whipple, dove Spinrad fa tutta un'analisi dei sottintesi del Signore della svastica. Ma già come ucronia non c'è male affatto: e siamo così entrati ben dentro la fantascienza.
Poi ovviamente c'è il romanzo. Un'autentica colata di metallo. La storia è presto detta: dopo una guerra nucleare la radioattività ha alterato il patrimonio genetico dell'umanità, per cui sono nati mutanti a milioni. In certi romanzi di fantascienza i mutanti non sono necessariamente inferiori all'uomo nella sua forma “naturale”; in questo, sono mostri deformi, discretamente idioti, oppure ripugnanti telepati capaci di dominare la volontà altrui (quindi chiamati Dom) e intenti a perseguire la conquista del mondo. A opporsi alla degenerazione dell'umanità c'è una sola nazione, Heldon, dove per secoli sono state applicate leggi eugenetiche per eliminare gradualmente i mutanti e tornare a una popolazione pura dal punto di vista razziale.
Be', già la premessa fa capire che siamo alle prese con un'autentica fantascienza nazista; la fantascienza che Hitler avrebbe potuto scrivere se fosse emigrato in America e avesse imparato il minimo di inglese necessario per buttare giù un romanzo veramente pulp (lo stile di Spinrad è deliberatamente legnoso e ripetitivo, tornano ossessivamente gli stessi aggettivi e avverbi, gli stessi giri di frase, costruzioni sintattiche un po' troppo tedesche; un gran lavoro di stile da parte dell'autore, quello di simulare la prosa di uno scrittore limitato e goffo). Ma questo non è che un inizio.
Purtroppo (dal punto di vista dell'autore ucronico, cioè Hitler) nel corso del tempo le leggi razziali di Heldon si sono annacquate; ed è andato al potere un partito Universalista che predica tolleranza nei confronti dei mutanti. In realtà gli universalisti non sono altro che utili idioti manipolati da una potenza straniera, lo stato di Zind, dove un'élite di Dom controlla telepaticamente un proletariato di mutanti loro schiavi; non solo, i Dom di Zind sono molto attivi nel settore dell'ingegneria genetica, e continuano a creare nuove forme di mutanti da usare nel loro piano di dominio sull'intero pianeta, come giganteschi guerrieri completamente stupidi, che però i Dom possono comandare a bacchetta.
Entra in scena Feric Jaggar; si tratta di un giovanottone cresciuto in Borgrovia, uno degli stati confinanti con Heldon, dove suo padre era stato esiliato per le sue idee politiche (che consistevano in un sano razzismo). Jaggar, morti i genitori, decide di tornare a Heldon in cerca di fortuna, facendo valere la sua purezza genetica; scopre però al posto di frontiera che la dogana di Heldon consente anche ai mutanti di entrare, che i controlli genetici sono all'italiana (ehm...), e che il posto è in realtà sotto il controllo di un Dom che manovra telepaticamente i militari addetti ai controlli.
Jaggar entra comunque, anche se piuttosto spazientito; in una taverna incontra un agitatore di nome Bogel, che sta cercando di fare proseliti per un piccolo partito nazionalista e razzista (il cui programma è sintetizzabile come “l'unico mutante buono è il mutante morto”). Bogel ha tanta buona volontà, ma non è un grande oratore; più che vincere consenso, fa quasi arrabbiare i frequentatori della locanda. Ma Jaggar si schiera al suo fianco, e con un discorso incendiario convince tutti che è ora di farla finita con la tolleranza verso i mutanti, anzi, persuade gli avventori a marciare sulla Dogana e a linciare il Dom lì annidato, cosa che viene fatta immantinente.
Di qui in poi la carriera politica di Jaggar è fulminea. Prima viene sequestrato da una gang di motociclisti che somigliano parecchio agli Hell's Angels; ma riesce non sono a farsi accettare da loro, superando le loro prove di iniziazione; ne diventa il capo, quando i bikers gli mostrano una sacra reliquia che custodiscono in gran segreto, il Comandante d'Acciaio, una specie di mazza di una lega metallica misteriosa che solo un individuo con il patrimonio genetico dell'antica casa reale di Heldon può sollevare. E quell'individuo è (ovviamente) Feric Jaggar.
Insomma, con questa trovata stile Spada nella roccia Jaggar viene consacrato leader, condottiero, duce, in una parola tedesca tristemente nota, führer. Subito dopo assume il comando del partitello di Bogel, che trasforma in un corpo paramilitare pronto a tutto, inclusa la guerra civile; riesce ad allearsi colle forze armate; nonostante abbia conseguito solo una minoranza di voti alle elezioni, con un colpo di stato spalleggiato dall'esercito prende il potere. Dopodiché, guerra contro i Dom ovunque essi siano, epurazione razziale, sterminio dei mutanti...
Insomma, il nazismo incrociato con la fantascienza dell'età d'Oro e qualche spruzzo degli psichedelici anni Sessanta americani. Un cocktail micidiale, che fa inorridire a ogni pagina, ma dal quale non ti riesci a staccare. Scene di battaglia tra il grottesco e il sadico, con fiumi di sangue e stragi colossali. Ammazza, ammazza, tanto sono tutti mutanti. Nient'altro che marionette in mano ai Cattivi più Cattivi che si possono immaginare. Alla fine tu lettore ti trovi ogni tanto a chiederti se sei tanto normale, nella misura in cui ti fai prendere da una storia concepita dalla mente malata di Adolf Hitler, o meglio da uno scrittore che si sta sforzando al massimo delle sue capacità di imitare lo stile che Hitler avrebbe avuto se fosse diventato un collega di Campbell, Del Rey, Van Vogt e compagnia, cioè gli scrittori dell'Età d'Oro della Fantascienza.
E qui il gioco di Spinrad si fa diabolico, quasi come in un romanzo di Dick (non a caso proprio a Spinrad venne chiesto di scrivere alcune pagine mancanti di Utopia, andata e ritorno del grande californiano). Da un lato Il signore della svastica sembra avere come suo obiettivo polemico il nazismo e la mente deragliata di Hitler, mostrandocene un prodotto che esplicita in modo immediatamente accessibile le sue ossessioni e perversioni; però quella che Hitler scrive è proprio la fantascienza avventurosa dell'Età dell'Oro. Il suo Feric Jaggar è una specie di Aarn Munro, il gioviano protagonista di una delle serie classiche degli anni Quaranta, scritta nientemeno che da John W. Campbell Jr. Jaggar è a tutti gli effetti la caricatura di un superuomo Nietzscheano, ma anche la caricatura di tanti supermen della fantascienza delle origini, inclusi quelli a fumetti. Chi sta prendendo in giro, Spinrad, il nazismo tramite la fantascienza o qualcosa di troppo simile al nazismo che sta tra le righe di certa fantascienza?
Non basta. Spinrad dota l'esercito di Heldon, nella sua guerra contro Zind e i vari stati satelliti dell'Impero del Male (uhm!), di armi che associamo alla guerra razziale del terzo Reich: carri armati, aerei a reazione (fu la Luftwaffe la prima forza aerea a farne uso in guerra), missili (come le mitiche V-1 e V-2 che Hitler fece lanciare contro Londra, progenitrici rispettivamente dei cruise missile e degli ICBM). Ma, e la cosa viene sottolineata, nelle feroci battaglie contro i mutanti di Zind, l'esercito di Heldon usa generosamente il napalm, che fu un'invenzione americana, impiegata contro il Giappone nella seconda guerra mondiale, e poi in quel Vietnam dove gli Stati Uniti avevano fatto di tutto e di più negli anni immediatamente precedenti l'uscita del romanzo. E alla fine della guerra esplode un ordigno nucleare che ricorda ovviamente Hiroshima e Nagasaki, ma anche la guerra fredda che era in corso nei primi anni Settanta (Zind, del resto, sembra proprio una versione pulp e caricaturale dell'Unione Sovietica...). Ovviamente dobbiamo chiederci se Spinrad ce l'aveva solo con il Terzo Reich, o se voleva anche far passare un messaggio che riguardava l'Impero Americano.
Non era il solo e non era il primo; non dimentichiamo che la fantascienza aveva già dato luce a L'uomo nell'alto castello (1962) di Dick ; che uno scrittore proveniente dalla fantascienza come Kurt Vonnegut aveva pubblicato Madre notte (1961) e Mattatoio n. 5 (1969); che l'anno dopo la pubblicazione del Signore della svastica sarebbe uscito il monumentale Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon; e che al centro di tutti questi romanzi sta una fondamentale inquietudine, e cioè che gli Stati Uniti, orgogliosi di avere sconfitto il nazifascismo, cioè il Male, non si stiano rendendo conto di esserne stati contagiati, di avere in sé il razzismo, l'avidità di potere, la brutalità e la disumanità che caratterizzavano il Reich millenario che Hitler aveva prima costruito e poi portato alla distruzione. La Germania hitleriana come specchio deformato dell'America imperiale, quindi; un punto di vista estremo, iconoclasta, sovversivo, ma che in quegli anni aveva una certa forza nella controcultura alla quale facevano riferimento, non a caso, tutti gli scrittori summenzionati; incluso Spinrad (e credo che andando a scartabellare tra la fantascienza e la narrativa non di genere di quegli anni, per non parlare del cinema, di questo fantasma inquietante che era la Germania hitleriana nel troveremmo ancora parecchie tracce).
E comunque, diciamo la verità: Il signore della svastica uno se lo legge e se lo rilegge. Pur notando lo stile legnoso, le ripetizioni, i dettagli al limite del patologico, l'ossessione della purezza, la mistica d'accatto della razza, è una storia d'avventura che solletica l'eterno fanciullo (o l'eterno teppista) che è in noi: l'eroe è senza macchia e senza paura; i cattivi sono brutti e spregevolissimi; le battaglie sono all'ultimo sangue; la carneficina è ottima e abbondante. Mentre leggi ti dici che sì, questo è il delirio in salsa fantascientifica di una mente malata, però ci prendi anche gusto. E ogni tanto ti fermi, e ti chiedi se non c'è qualcosa del mostro anche dentro di te; ti viene da pensare che il segreto del nazismo è proprio questo, che l'ideologia hitleriana, le sue parate (riprodotte con gran magniloquenza nel mondo di Feric Jaggar), il suo culto della violenza e della guerra, il suo brutale razzismo hanno fatto presa su tanta gente perché c'è qualcosa dentro di noi, in maggiore o minor misura, che risponde a quelle cose, che ci prova gusto. Diremo che è la parte più abietta della nostra mente, quella più animalesca, quella meno evoluta? Mi sta bene: ma non neghiamo che c'è. E in questa constatazione Spinrad è assai vicino a un altro grande pessimista, un altro scrittore che – guarda caso – veniva anche lui dalla fantascienza, ed era convinto che una componente di follia, di devianza, di patologico ci fosse in tutti, e ne era convinto perché l'aveva vista emergere durante la Seconda guerra mondiale, non in Europa ma a Shanghai, quando era prigioniero dei giapponesi nel campo di concentramento di Lunghua. Ovviamente mi riferisco a J.G. Ballard, che, di dieci anni più vecchio di Spinrad, apparteneva sostanzialmente anch'egli alla stessa generazione, quella della cosiddetta New Wave. E Il signore della svastica è New Wave allo stato solido, che dopo quarant'anni conserva ancora tutta la carica ironica, irriverente, iconoclasta e provocatoria che aveva dato prova di avere alla sua uscita. In questi tempi di bestialità diffuse e intolleranza crescente, decisamente un romanzo da rileggere.
(P.S. Una cosetta che fa pensare: tutti gli scrittori della New Wave americana erano piuttosto a disagio col loro paese; l'unico che se ne sia andato dagli Stati Uniti è stato proprio Spinrad, che da non pochi anni risiede in Francia. Ammiriamo la coerenza.)
(P.P.S. Forse saprete che americani e inglesi sono un po' come i proverbiali ladri di Pisa, che litigano di giorno e vanno a rubare insieme di notte. Non tutti sanno che le polemiche tra i due popoli, che secondo Dickens erano separati dal fatto di parlare la stessa lingua, ci sono anche in ambito fantascientifico: attualmente i critici inglesi sostengono che la New Wave fu solo britannica, e che parlare di New Wave in America sia scorretto. Io che non sono né britannico né tampoco statunitense ritengo che la New Wave americana ci fu e come, influenzata da quella inglese, non organizzata attorno a una rivista – cioè New Worlds– come quella inglese, ma assai simile per temi e idee fisse. Sarà pur vero che il grosso della fantascienza l'hanno scritta loro, ma ogni tanto serve anche il punto di vista italiano.)
Umberto Rossi


STORIE DEL PIANETA AZURRO

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Fin dal 2013 Cronache di un Sole Lontano ripropone le introduzioni ed i saggi firmati da Sandro Pergameno, ed originariamente usciti su varie collane di SF. Proseguiamo nel solco di questa tradizione riproponendo un'introduzione, scritta per il volume "Storie del Pianeta Azzurro" e pubblicato dalla Editrice Nord nella collana Grandi Opere Nord, che tocca temi quanto mai attuali ed interessanti. Con la speranza che l'editoria nostrana possa tornare ad interessarsi a queste tematiche ed a pubblicare opere del genere.


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Gli appassionati ormai lo sanno: la SF non è solo divertimento frivolo, avventure spaziali adrenaliche e/o immaginifiche, passatempo e dipinti cosmici psichedelici; e mentre l'editoria nostrana rifugge la parola "fantascienza" come fanno i vampiri con l'aglio, negli States la SF frequenta le aule e biblioteche universitarie.

Nel 2014 la Wesleyan University Press ha stampato un' antologia a tema, curata da Gerry Canavan e Kim Stanley Robinson, intitolata "Green Planets - Ecology and Science Fiction" (ispirata dall'antalogia "Red Planets: Marxism and Science Fiction", curata da China Mieville e Mark Bould); l'antologia comprende racconti e saggi a tema ecologia, inquinamento ambientale ed ecocriticismo in relazione, ovviamente, alla Science Fiction. Un'antologia molto bella, che consiglio caldamente a chiunque è particolarmente interessato a queste tematiche.



Ma in Italia purtroppo siamo destinati a leggere in inglese, perchè è quasi impossibile che opere del genere vengano tradotte in italiano e perchè ancora più difficile è immaginare che i nostri editori comincino a pubblicare opere di questo tipo (per questo motivo l'articolo/saggio firmato da Fabio Feminò, "Macrocittà del Futuro", apparso sull' UCZ #148, è stata per me una graditissima sorpresa!).


Fino a qualche anno fa noi Italiani avevamo almeno la fortuna di poter accedere alle opere pubblicate dalla amata e compianta Editrice Nord; in particolare, nella collana Grandi Opere Nordè stata pubblicata l'antologia Storie del Pianeta Azzurro, curata da Sandro Pergameno e contenente racconti e romanzi brevi inediti di autori del calibro di R. Silverberg, G. Dickson, P. Anderson, T. Sturgeon, H. Ellison, G. Wolfe, A. Budrys, T. Carr, N. Spinrad, J. Varley, M. Bishop, C. Willis, W. Guin, O.S. Card, D. Knight e F. Pohl.
I temi toccati spaziano dall'ecologia all'olocausto nucleare, dall'inquinamento ambientale alla sovrappopolazione, dai paradisi tecnologici all'alienazione, dalla povertà alla follia ed all'alienazione che impera nella nostra società fino a scenari della Terra di un lontanissimo futuro; insomma, si parla del futuro del nostro pianeta...di casa nostra...della nostra esistenza!
Un'antologia caldamente raccomandata a tutti gli appassionati (e che dovrete cercare nei canali dell'usato) e della quale vi riproponiamo l'introduzione firmata da Sandro Pergameno.




Arne Saknussemm






La Terra del futuro: castelli nel cielo o rovine nella polvere?


«Per quanto gli scrittori di fantascienza possano giocare col tempo, saltare nel passato, o trasportarsi in mondi alternati, la loro vera casa è il futuro. Le altre arene possono essere piacevoli luoghi di soggiorno o creativi terreni di gioco, ma l'aspetto missionario dello scrittore di fantascienza, in contrasto con i suoi scopi artistici, i suoi bisogni pratici, o i suoi momenti "sportivi", necessita di un'opportunità di predicare la ricerca della salvezza, un cambiamento nell'etica, o nelle morali o nelle religioni, un nuovo modo di pensare o addirittura un nuovo stile di vita... Gli scrittori di fantascienza, come gruppo, hanno un'inestinguibile e insradicabile bisogno di mettere il mondo sull'avviso contro i pericoli che ci attendono, e solo il futuro può essere cambiato.» Con queste parole James Gunn iniziava un capitolo del suo ottimo saggio Mondi alternativi (Alternate Worlds) intitolato «La forma delle cose a venire», con un ovvio riferimento al classico libro di Herbert George Wells. Ci siamo permessi di riprendere la bellissima introduzione di Gunn perché ci sembra che queste frasi rendano alla perfezione un concetto per noi fondamentale nella disamina del fenomeno fantascientifico, e cioè che uno degli aspetti principali (se non il principale in assoluto), e certo il più importante dal punto di vista storico e sociale, di questo peculiare genere narrativo è quello della predizione del futuro, intesa sia come estrapolazione delle varie tendenze scientifiche e tecnologiche, sia come «avviso», «prevenzione», «messa in guardia» dai pericoli che possono nascere da queste nuove tendenze stesse.
In un certo senso in effetti potremmo anche affermare che la fantascienza, come genere letterario, è nata proprio come disamina delle possibilità che la scienza offre all'uomo, come fantastica speculazione sui probabili sviluppi futuri delle attuali conoscenze tecnologiche.
Avremmo dunque potuto includere in questo volume qualsiasi storia di «science fiction» (escludendo la «fantasy», che, per sua definizione, è un filone parallelo alla fantascienza ma da questa distaccato da canoni a volte abbastanza sottili): diciamo dunque che la nostra scelta è andata stavolta ad opere incentrate sul futuro del nostro pianeta. Abbiamo così limitato in parte il nostro raggio d'azione, ma non di molto: ci siamo sbizzarriti infatti a ricercare racconti di tema utopistico o antiutopistico (o distopico, se preferite questo termine oggi così in voga), storie di catastrofi ecologiche o atomiche, vicende sul lontano futuro dell'umanità e su una Terra alla fine del tempo.
Temi dunque molto disparati tra loro, ma che ci hanno permesso di radunare molti racconti e romanzi brevi che volevamo da tempo presentare ai nostri lettori: alcuni sono racconti che hanno vinto dei premi Nebula (visto che abbiamo già dedicato due volumi alle storie che hanno vinto il premio Hugo), altre sono storie classiche apparse negli anni quaranta e cinquanta, altre infine sono storie tra le migliori apparse in questi ultimi anni oltreoceano.
La maggior parte di queste storie, pur essendo tutte molto varie e diverse tra loro, possono venir fatte rientrare nel filone «distopico», intendendo con questo termine qualsiasi vicenda focalizzata su un futuro negativo per l'umanità, vale a dire su una società futura che sia all'opposto del mito dell'Utopia, dello Stato Ideale. In senso lato questa negatività futura può derivare non solo da una degenerazione del potere politico (che potrebbe accentrarsi con effetti deleteri nelle mani di un uomo solo o di un'oligarchia militare, teocratica o tecnocratica) ma anche da una qualsiasi altra causa di disgregazione della società umana, sia questa un cataclisma ecologico provocato dall'incoscienza umana, sia un olocausto nucleare derivante anch'esso dalla follia dell'uomo.
Il mito dell'Utopia, cioè dello Stato Ideale, del Paradiso in Terra, è molto antico ed ha origini che precedono quelle della fantascienza (a meno che non si voglia far rientrare nella fantascienza anche il genere utopistico, ma questo è un altro discorso che forse è meglio evitare in questa sede). Già gli antichi greci con Platone e Luciano di Samosata avevano iniziato a esplorare i territori del mito utopistico, ma chi coniò per primo questo termine fu l'inglese Thomas More nel 1516, appunto nel suo Utopia, una parola che sta ambiguamente a metà tra «eutopia» (letteralmente «un posto migliore») e «outopia» («nessun luogo»). Vale a dire che «utopia» è una terra mitica e paradisiaca che però non esiste nel nostro mondo (ancora).
Si potrebbe dire che le storie utopistiche sono fantascienza in quanto sono esercizi di ipotetica sociologia e scienza politica. Viceversa si potrebbe obiettare che solo quelle utopie che si fondano su presupposti di avanzamenti scientifici si qualifichino come SF. Ma questa è una disquisizione oziosa che potrebbe portarci molto al di fuori del nostro seminato. Vediamo dunque come gli autori di fantascienza hanno trattato questo genere.
Gli scrittori dell'ottocento furono i primi a focalizzare la loro attenzione su questo filone, e ciò fu dovuto, a nostro avviso, soprattutto alla rivoluzione tecnologica degli inizi del secolo. Non fraintendeteci: la rivoluzione tecnologica non produsse all'inizio molti stimoli utopistici negli scrittori dell'epoca. Al contrario, gran parte delle storie utopistiche dell'ottocento sono caratterizzate da una forte vena di romanticismo anti-scientifico. The Coming Race (1870) di Bulwer Lytton appartiene di diritto più alla tradizione occultistica di questo autore che alle utopie scientifiche. Il satirico Erewhon (1872) di Samuel Butler e il suo seguito sono senz'altro opere pastorali e anti-tecnologiche, ammesso sempre che siamo utopistiche. After London (1885) di Richard Jefferies è il romanzo più estremista di tutti nella sua nostalgia della barbarie, e presenta immagini di città morte che hanno avvelenato la Terra.
Questo conservativismo nostalgico tuttavia è più inglese che americano: in effetti non raggiunse affatto l'America, che stava diventando già allora la vera patria del progresso. Il celebre Looking Backward (1888) di Edward Bellamy, riportò il mito utopistico a un glorioso apice di popolarità, e fu presto seguito da molti altri nello stesso stile.
Il libro di Bellamy era indubbiamente molto ingenuo, ma divenne comunque l'archetipo di un'intera scuola di utopie meccanizzate, tra cui ricordiamo A.D. 2000 (1890) di Alvarado Fuller e The Crystal Button (1891) di Chauncey Thomas.
Ma fu soprattutto Herbert George Wells, per tornare in Inghilterra, che diede nuova spinta al genere con i suoi A Modem Utopia (1905), Men like Gods (1923) e The Shape of Things to Come (1933).
Hugo Gernsback, l'altro padre della fantascienza (se vogliamo considerare Wells come il primo) e fondatore di «Amazing Stories», la prima rivista dedicata interamente a questo genere, era anch'egli un convinto «euchroniano». Gernsback credeva fermamente che uno stato utopistico sarebbe stato il risultato inevitabile del progresso tecnologico: a parte la stesura del romanzo Ralph 124C41 + (1911-12), si potrebbe dire che egli creò il genere letterario della «scientifiction» (così chiamava lui la fantascienza) principalmente come mezzo promotore dei magnifici potenziali della tecnologia moderna.
All'epoca della nascita di «Amazing» tuttavia, un nuovo tipo di critica all'utopia era ormai in atto: critica sulla base di ciò che è desiderabile, e non di ciò che è pratico. Anatole France in The White Stone (1905) fece dire a un personaggio (era un cittadino di una futura utopia) che la pace e la ricchezza vanno bene ma non sono sufficienti a garantire all'uomo la felicità.
A causa di queste circostanze dunque, nonostante l'entusiasmo di Hugo Gernsback, la fantascienza non è mai stata un genere molto utopistico: semmai, riallacciandoci al discorso iniziale potremmo dire che le preoccupazioni degli autori di SF hanno quasi sempre prevalso sull'ottimismo di Gernsback.
Certo, nelle prime storie degli anni venti e trenta troviamo una pletora di racconti più o meno stereotipati di società felici, ordinate e giuste dove sono state debellate povertà e malattie.
Le obiezioni più violente a questo tipo di storie vennero, oltre che dagli autori delle riviste di fantascienza, anche da autori al di fuori del campo: Aldous Huxley, George Orwell, Ayn Rand, L.P. Hartley, Bernard Wolfe portarono tutti attacchi violentissimi a queste utopie sociali che in un certo senso si riagganciavano agli ideali comunisti di Carl Marx e dei suoi seguaci.
Se George Orwell dipinge un devastante ritratto di una tirannica dittatura di stampo comunista in 1984 (1948), riprendendo temi già espressi in maniera non altrettanto efficace dal russo Eugenio Zamiatin in Noi (My, 1922) e da Ayn Rand in La vita è nostra (Anthem, 1937), Aldous Huxley distrugge con il suo Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) gli ideali del positivismo scientifico manifestati dalle numerose utopie descritte da Wells, che fu certamente il più grande sostenitore, nel primo novecento, dei valori socialisti e scientifici.
Anche molti degli autori delle riviste di sf non erano molto convinti delle idee di Gersnback: alcuni già avvertivano il sorgere di dubbi e di un certo senso di pessimismo. Miles J. Breuer in Paradise and Iron (1930), Laurence Manning e Fletcher Pratt in City of the Living Dead (1930) e John Wood Campbell jr. in Twilight (1934, scritto sotto lo pseudonimo di Don A. Stuart) prevedono tutti la decadenza della civiltà umana come inevitabile conseguenza di una troppo marcata dipendenza dalle macchine. L'idea era già stata magistralmente trattata da un autore del primo novecento, E.M. Forster, che nella sua unica escursione nel campo fantascientifico, The Machine Stops (1909), aveva descritto un mondo sotterraneo, i cui abitanti vivono in celle separate e solitarie, assistiti in tutti i loro bisogni dall'onnipotente Macchina. I contatti tra le persone quasi non esistono più; la televisione è l'unica forma di comunicazione. Quando la Macchina si ferma, per un inspiegabile guasto meccanico o per semplice decadimento temporale, la civiltà crolla e tutti gli abitanti della città sotterranea, incapaci di far nulla e persino di uscire all'esterno, periscono miseramente nel panico più assoluto. I reietti che vagano sulla superficie abbandonata da secoli saranno gli unici superstiti umani della catastrofe.
Negli anni quaranta gli scrittori di fantascienza esaminarono con particolare interesse le antiutopie a sfondo religioso. I due esempi più validi e importanti sono senz'altro L'alba delle tenebre (Gather Darkness, 1943) di Fritz Leiber e Rivolta nel 2100 (If This Goes On..., 1940) di Robert Heinlein. Entrambi sviluppano un discorso su una futura dittatura religiosa rivestente i panni di un culto religioso. Nel primo, che è il più importante dei due romanzi pur essendo stato scritto dopo, un gruppo di scienziati sopravvissuti a una guerra atomica che ha avuto conseguenze catastrofiche per la Terra decide, un po' per brama di potere e un po' per mantenere un certo grado di civiltà ed evitare un ritorno completo alla barbarie, di creare una religione cinica e falsa, che domini sulle masse ignoranti con potere assoluto e prevaricatore e con il sussidio di una scienza grandemente avanzata. Nel momento in cui ha luogo l'azione, molti secoli dopo che questo è avvenuto, il mondo è cristallizzato in una sorta di medioevo futuro in cui la Gerarchia religiosa, che si trasmette ereditariamente l'appartenenza alla classe sacerdotale, usa non solo la scienza ma anche le armi ben più efficaci della paura, della psicologia e della superstizione per tenere le masse oppresse in una squallida servitù della gleba. Di nascosto dalla Gerarchia va però crescendo il malcontento del popolo, stanco di essere sfruttato così apertamente; tale malcontento viene poi incanalato nella direzione giusta, cioè quella della rivolta, da un gruppo sovversivo che ha scelto di rivestire i panni esteriori di un culto satanico, con tanto di streghe e stregoni, e di «familiari» tratti di peso dalla tradizione medioevale. La Nuova Stregoneria, i cui capi hanno coerentemente scelto i nomi di «Uomo nero» e di «Satanasso», ha inoltre imparato tutti i segreti scientifici così gelosamente custoditi dalla Gerarchia ed altri a quest'ultima ignoti ripescati nelle rovine della perduta civiltà del lontano passato; e la battaglia finale che vedrà il crollo della Gerarchia e del suo falso Dio si svolgerà appunto a colpi di falsa magia e di falsi miracoli: le immagini tridimensionali di fantasmi, lupi giganti, e diavoli fiammeggianti create dai proiettori solidografici dei ribelli incuteranno panico e terrore nell'animo dei preti della Gerarchia e sgretoleranno la struttura del potere ecclesiastico.
In Rivolta nel 2100 Robert Heinlein descrive una situazione analoga: un'America futura ridotta a Stato teocratico-autoritario, con un Profeta Incarnato a capo del culto repressivo. Soltanto una rivoluzione sanguinosa, combattuta stavolta con armi più usuali, potrà riportare la democrazia.
In L'undicesimo comandamento (The Eleventh Commandment, 1961) Lester Del Rey presenta una religione scismatica ed eretica che, assunto il controllo del mondo, incoraggia, anzi ordina (è appunto questo l'undicesimo comandamento del titolo) al popolo di procreare in continuazione. L'unico peccato vero per gli uomini di questo mondo è quello di non avere figli. L'opera, che sembra, fino quasi alla fine, un violento attacco alla Chiesa Cattolica e alla sua opposizione al controllo delle nascite, termina invece con un clamoroso colpo di scena: il protagonista, che si batte per sconfiggere il potere teocratico, scoprirà che l'undicesimo comandamento è l'unica vera speranza che ha l'umanità di salvarsi dalla sterilità e dalla confusione dell'ibrida mescolanza delle razze mutanti create dalla bomba atomica.
In Un amore a Siddo (The Lovers, 1961) e nel suo seguito Gli anni del Precursore (A Woman A Day, 1968) Philip José Farmer mostra la sua insofferenza nei confronti di qualsiasi imposizione mentale e tabù descrivendo un mondo futuro in cui Israele è diventato una delle massime potenze e il Precursore, l'infallibile profeta del culto ebraico, domina una società ultrapuritana dove tutto ciò che riguarda il sesso è accuratamente nascosto e cancellato. Per sfuggire all'oppressione di questa dittatura religiosa dalla terrificante chiusura mentale, Hal Yarrow, il protagonista di Un Amore a Siddo, s'innamorerà di Jeannette, una lalitha, creatura extraterrestre dalle forme forme femminili, la cui razza si è evoluta sul pianeta Siddo a partire dallo stadio insettoide, e si unirà a lei in un sacrilego atto sessuale che la porterà alla morte.
La maggior parte delle antiutopie vide tuttavia la luce all'inizio degli anni cinquanta, periodo in cui, sotto l'impulso del direttore della rivista «Galaxy», Horace Gold, venne particolarmente di moda l'anticipazione di tipo sociale (definita in Italia «fantascienza sociologica»). In questo filone i mutamenti del mondo futuro erano osservati attraverso l'ottica particolare data dalle relazioni sociologiche. Si analizzavano, cioè, le tendenze sociali fini a se stesse, astraendo dalle cause che le avevano provocate e trascurando spesso il singolo dato umano per descrivere il comportamento collettivo.
Il romanzo cardine di questo genere è il celebre I mercanti dello spazio (The Space Merchants) di Fred Pohl e Cyril Kornbluth, uscito in volume nel 1953, dopo che una versione più breve, Gravy Planet, era apparsa nel 1952 su «Galaxy». I due autori hanno qui ipotizzato un'America futura sovrappopolata in cui il benessere e la qualità della vita vanno progressivamente diminuendo, mentre i monopoli industriali e le grosse agenzie pubblicitarie hanno esautorato il sistema politico e governano al posto degli uomini di governo, ridotti a meri fantocci nelle loro mani. L'uomo di questo terrificante futuro è un animale braccato dalla pubblicità, un consumatore forzato, una bestia da lavoro, un essere totalmente alienato dal lavaggio del cervello cui è sottoposto in continuazione. Il protagonista, Michael Courtenay, è uno dei dirigenti di una grossa agenzia pubblicitaria, ma, durante la campagna per la colonizzazione di Venere, subisce un capovolgimento improvviso e si ritrova sbalzato all'ultimo gradino della scala sociale: vivrà così di persona la orribile esperienza del consumatore. Tornato al potere con l'aiuto dei conservatori (a sua insaputa), egli cerca di cambiare le cose dall'interno (opponendo un «trust» buono a un «trust» cattivo). Naturalmente viene sconfitto, ma riuscirà alla fine a fuggire su Venere e a mantenere disponibile il nuovo pianeta per tutti coloro che non sono stati ancora totalmente inghiottiti dalla pubblicità.
Il tema «pubblicitario» è presente anche in Il lastrico dell'inferno (Hell's Pavement, 1955) di Damon Knight: qui i monopoli che si contendono i consumatori si sono eretti a veri e propri Stati riformando l'etica tradizionale: comprare i prodotti delle industrie concorrenti significa infatti compiere un peccato e consegnarsi alla dannazione. Attraverso una tecnica ipnotica, il consumatore è convinto, fin dalla nascita, di avere accanto a sé un angelo custode che lo guida nelle sue azioni, naturalmente lodandolo quando compra certi prodotti e rimproverandolo quando ne compra altri.
In Gladiatore in legge (Gladiator at Law, 1954) il secondo romanzo composto da Pohl e Kornbluth, abbiamo invece un mondo futuro dominato dalle grandi Compagnie immobiliari, che hanno totalmente soggiogato la popolazione ai loro voleri. È un mondo inasprito dalla violenza, dalla passione per il profitto e da un arrivismo spietato che si sfrenano nelle città, veri incubi di cemento. La gente viene narcotizzata dagli spettacoli sanguinosi e brutali dei gladiatori che si uccidono tra loro nelle arene come negli antichi giochi romani. Chi ha un contratto di lavoro riceve cibo, casa, macchina; ma i disoccupati, i disadattati, gli sconfitti subiscono l'amara realtà della vita di Torcibudella, la squallida periferia urbana dove regna la violenza giovanile. In questo mondo l'avvocato Charles Mundin combatte una lotta impavida, nei vicoli delle città e nelle aule dei tribunali, contro un potentissimo «trust» immobiliare.
Ancora in Rischio calcolato (Preferred Risk, 1959) di Edson McCann (pseudonimo di Frederik Pohl e Lester del Rey), il potere assunto dalle compagnie di assicurazione diviene tale da condizionare l'esistenza del singolo individuo. La storia, che si svolge a Napoli, in un'Italia futura un po' di maniera, vede anche un personaggio, tal Zorchi, dotato della straordinaria capacità di farsi ricrescere gli arti, che provoca volontariamente incidenti in cui venga a rompersi gambe o braccia, per poter rivalersi appunto sulle compagnie assicurative.
Un classico dell'utopia negativa è Fahrenheit 451 (Fahrenheit 451, 1953) di Ray Bradbury, apparso in versione più breve su «Galaxy» nel 1951. 451 gradi Fahrenheit è la temperatura a cui la carta si accende per combustione spontanea: i pompieri, protagonisti di questo romanzo, non sono incaricati di spegnere gli incendi, bensì di dar fuoco ai libri, alle riviste, e a ogni fonte (proibita) di sapere stampato su cui arrivano a mettere le mani. Bradbury immagina un mondo anti-intellettualistico da cui è bandito lo studio personale, dove la meditazione individuale costituisce un crimine, e dove tutti passano la vita davanti a enormi schermi televisivi che funzionano in permanenza e li istupidiscono con interminabili storie sentimentali e concorsi. La città tutta è un mostro meccanico che anestetizza le coscienze piegandole al più ottuso conformismo, sradicandole dalla realtà. Montag, il protagonista, è un pompiere cui capita per caso tra le mani un libro: poco per volta comincia a leggere e a nascondere libri in casa. Denunciato dalla moglie alle autorità, sarà costretto a fuggire disperatamente per evitare la feroce caccia all'uomo scatenata dalle autorità cittadine contro di lui. Braccato, troverà salvezza in una piccola società di ribelli, paria come lui, che hanno rinunciato ai falsi valori della civiltà attuale per accudire gli autentici valori della cultura, trovando una ragione di vita nella conservazione dei pochi testi letterari rimasti. Montag, come gli altri ribelli, dovrà imparare a memoria questi testi per mantenere una cultura e una tradizione che nessun «pompiere» e nessun fuoco possano distruggere.
Altrettanto importante nello sviluppo del filone antiutopistico è Distruggete le macchine (Player Piano, 1952) di Kurt Vonnegut jr. È la storia di Paul Proteus, giovane dirigente d'industria di una società apparentemente utopistica, in cui tutti possono godere di un notevole benessere. A nessuno mancano i moderni lussi e comfort, e le macchine svolgono quasi tutti i lavori un tempo compiuti dagli esseri umani. In realtà, dietro questa facciata paradisiaca, si nasconde la profonda ingiustizia di un mondo automatizzato che è proprietà esclusiva dei tecnocrati, dei grandi impresari industriali, degli ingegneri che si tramandano il potere come nelle antiche caste medioevali. Soltanto i pochi eletti, i pochi appartenenti alla nuova aristocrazia possono accedere al potere, e i giovani «cadetti», i futuri successori degli odierni dirigenti, devono dimostrare non le loro qualità e capacità effettive (ormai il passaggio dinastico e clientelare è diventato automatico) bensì di possedere lo «spirito aziendale» una cieca fiducia nel sistema: nessun dubbio, sia pur minimo, viene accettato. Nessun mezzo viene trascurato per inculcare nei futuri padroni del paese lo spirito aziendale: ritiri annuali per accendere lo spirito di corpo, gare ginniche dal vago sapore nazifascista, «sacre rappresentazioni», opere teatrali in cui le forze del bene (i Giovani Ingegneri) sono contrapposte a quelle del male (i demoniaci Radicali). In contrasto con questa casta di aristocratici chiusi nelle loro cittadelle corazzate, i cittadini comuni, quelli non qualificati per svolgere le mansioni direttive, vivono in autentici ghetti e, pur di sottrarsi al grigiore di un 'esistenza vuota e inutile, si irreggimentano nell'esercito o nel corpo di bonifica stradale, attività più simboliche che reali, mentre le macchine vanno sostituendo sempre più l'uomo anche nei lavori di tipo intellettuale.
Comunque le macchine sono solo il bersaglio apparente di Vonnegut; in realtà egli le considera strumenti di indubbio valore e utilità. La violenta protesta dell'autore e del giovane protagonista è diretta contro la burocrazia tecnocratica, una vera e propria dittatura di classe che detiene il potere manovrandolo in nome di un'etica ipocrita e utilitaristica, magnificando le ricchezze materiali prodotte dalle macchine senza minimamente preoccuparsi della degradazione morale, dello svilimento intellettuale dei cittadini medi.
I limiti classisti della società capitalistica attaccata da Vonnegut sono anche il bersaglio di numerose satire di Frederik Pohl: in Il morbo di Mida (The Midas Plague, 1954) ad esempio, egli descrive una Terra futura in cui i robot producono in sovrappiù rispetto ai fabbisogni dei cittadini, che sono «costretti» a consumare mensilmente un certo numero di scorte. Il tunnel sotto il mondo (The Tunnel Under the World, 1954) è un'altra violenta polemica contro il consumismo e il potere dei grandi monopoli industriali: qui l'onnipotente mr. Dorchin, rappresentante di un colossale «trust», ha innestato le menti degli abitanti di una cittadina distrutta da una casuale esplosione in corpi d'automa. L'intera cittadina ricostruita viene così ridotta alle condizioni di laboratorio: modello perfetto per le ricerche di mercato in cui sperimentare le reazioni del pubblico alla vendita di determinati prodotti. E ancora in The Waging of the Peace, (1959), Pohl narra l'eroicomica impresa miseramente fallita di quattro volontari che tentano di fermare le terrificanti fabbriche dell'America del futuro, completamente automatizzate, le quali producono con ferrea programmazione una marea di prodotti che nessuno vuole più usare e consumare.
L'era della follia (The Syndic, 1953) di Cyril Kornbluth contrappone invece il Sindacato, una potente organizzazione libertaria, alla Plebe, sorta di stato fascista-socialista che governa con mano ferrea.
Ancor più vicino ai canoni della tradizionale antiutopia alla Orwell o alla Zamiatin è Doomsday Morning (1957) di Catherine L. Moore. Qui ritroviamo infatti tutti i connotati tipici di questo genere di utopie negative: il presidente Raleigh, capo di questo mondo futuro, è vicino parente del Grande Fratello di 1984 e, come lui, anche se è salito al potere in epoca non lontana, viene ormai considerato un dio immortale, onnisciente e onnipotente. Anche qui ritroviamo un sistema che controlla costantemente ogni azione e ogni spostamento, persino ogni pensiero dei cittadini: il «Comus», un organismo che presidia tutti i mezzi di comunicazione e assicura in pratica al dittatore il suo potere assoluto.
Un altro autore degli anni cinquanta che riecheggiò, più o meno pedissequamente, i temi classici dell'antiutopia alla Orwell, è Louis Charbonneau, che nei suoi romanzi No Place on Earth (1958) e The Sentinel Stars (1963) descrisse società opprimenti e dittatoriali di tipo comunista, in cui gli esseri umani venivano divisi in classi sociali invalicabili. The Sentinel Stars narra appunto la vicenda del cittadino TRH-247, che si innamora di una ragazza appartenente a una classificazione diversa dalla sua e quindi a lui negata dalle rigide regole dello Stato.
In tempi più recenti Alfred Elton van Vogt in Future Glitter (1973), ha ripresentato questi concetti in termini ancora più drastici: se da una parte Lilgin, il suo dittatore, ha pacificato il mondo, eretto un sistema efficiente e ordinato, debellato il crimine, livellato le diseguaglianze, dall'altra egli pretende la sottomissione incondizionata, l'uniformità più totale alle direttive superiori anche per i più semplici e naturali atti dell'esistenza, l'ubbidienza più cieca a ogni suo capriccio. Lilgin è una figura classica di dittatore antiutopico ed esempio allarmante della massima degenerazione del potere nelle mani di un unico uomo. Il battito delle sue mani produce tuoni fragorosi, il suo volto occhieggia da ogni muro, le sue «braccia secolari» arrivano dovunque, le sue direttive sono legge assoluta. Ha anche una caratteristica originale rispetto ai suoi predecessori: il dono dell'ubiquità.
La fantascienza moderna ha in genere trascurato il filone delle antiutopie tradizionali basate sulla degenerazione del potere (sia esso politico che teocratico, tecnocratico, economico, industriale, ecc.). Le antiutopie attuali sono infatti incentrate su temi diversi ma altrettanto drammatici, come la sovrappopolazione e l'inquinamento. Autori come John Brunner e Harry Harrison si sono soffermati a dipingere visioni allucinate di una Terra futura depredata di tutte le sue risorse naturali, ridotta a un immenso letamaio in cui miliardi di esseri umani si combattono lo spazio vitale tra assassinii, sabotaggi, rivolte. In questo senso Make Room, Make Room (Largo, Largo, 1966) di Harry Harrison, Il gregge alza la testa (The Sheep Look Up, 1972) e Tutti a Zanzibar (The Stand on Zanzibar, 1969) di John Brunner sono modelli esemplari del più cupo e nero pessimismo antiutopistico e della più totale degenerazione della razza umana.
Un'altra possibilità futura che ha sempre molto affascinato gli scrittori di fantascienza è quella dell'olocausto atomico, della fine del mondo (o almeno del mondo civile come viene inteso oggigiorno) causata dallo scoppio di una guerra nucleare. È impossibile citare tutti i romanzi e racconti che, a partire soprattutto dagli anni quaranta (quando venne scoperta la bomba atomica), hanno trattato questo soggetto da tutte le angolazioni possibili e immaginabili: polluzione dell'aria, radioattività, mutazioni genetiche, crollo della civiltà tecnologica, ritorno alla barbarie, rinascita e ricostruzione della società. Ricordiamo, solo per fare qualche esempio dei più famosi, Rebirth (1934) di Thomas Calvert McClary, The Death of Grass (1956) di John Christopher, Earth Abides (1949) di George Stewart, Level 7 (1959) di Mordecai Roshwald,Alas Babylon (1959) di Pat Frank, The Long Loud Silence (1952) di Wilson Tucker, Lot (1953) di Ward Moore, Davy (1964) di Edgar Pangborn, A Canticle for Leibowitz (1960) di Walter Miller jr. e in particolare anche il bellissimo e toccante The Place of the Gods (1937, noto anche come By the Waters of Babylon), di Stephen Vincent Benet, un racconto che mescola paura, superstizione e pungente nostalgia nella vicenda di un ragazzo barbaro che si trova di fronte alle meraviglie tecnologiche di una città in rovina. Il suo finale, che si chiude con le parole «Dobbiamo ricostruire di nuovo», e questo tocco di sentimentalismo sono tipici di molte di queste storie, ma sono soprattutto indice di uno spicchio di speranza che c'è sempre nella migliore fantascienza.
Per concludere con le parole ancora di James Gunn, «qui vediamo la fantascienza che ci fa osservare l'orrore totale e definitivo dell'olocausto: un orrore che nasce non dal fatto che tanti uomini possono morire in maniera così dolorosa e orribile (tutti gli uomini sono destinati a morire, e poche morti sono piacevoli), ma che in questo modo verrà distrutto il futuro dell'umanità, verranno cancellati tutto il potenziale mai completato, tutte le possibilità mai realizzate, tutta l'arte, tutto l'amore, tutto il coraggio e la gloria che sarebbero potuti essere; non si tratta del fatto che qualche stupida guerra totale possa distruggere il presente, ma che potrebbe distruggere l'eternità. Da questo punto di vista, dal punto di vista dei nostri lontani discendenti, non importa quanto saranno diversi da noi nelle loro forme, nei loro modi di vivere e di comportarsi, il crimine più grave non è l'assassinio ma la mancanza di previsione futura, la mancanza di prospettiva che ci spinge a porre troppa enfasi su situazioni immediate con soluzioni drastiche, senza badare ai rischi per la vita e la civiltà. Una specie di idiozia romantica. In senso metaforico la fantascienza potrebbe esser considerata come un insieme di lettere dal futuro, dai nostri figli, che ci incitano a essere più riguardosi nei riguardi del loro mondo. Nel suo trattare il futuro, anche se in modo pessimistico o in una vena di «messa in guardia», la fantascienza può essere considerata una narrativa ottimistica.» 

Sandro Pergameno

"Storie del Pianeta Azzurro"di Autori Vari (a cura di Sandro Pergameno)
Grandi Opere Nord n.13 - Editrice Nord. Copertina di Nico Keulers; 828 pagine, cartonato con sovracoperta.
Nota:  Ogni racconto è preceduto da un breve commento del curatore

LEVIATHAN - IL RISVEGLIO di James S. A. Corey

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Doveva essere la sala delle torture. I suoi amici dovevano essere lì dentro, pestati a morte o fatti a pezzi. Julie impugnò la chiave inglese e si preparò a spaccare almeno una testa prima di farsi ammazzare. Fluttuò giù. Il fango che si era raccolto attorno al reattore possedeva una struttura che non aveva mai visto. Per tutta la sua lunghezza correvano dei tubi simili a vene, o canali di ventilazione. Parti di quella guaina sembravano pulsare. Non era fango. Era carne. Un'appendice di quella cosa si mosse verso di lei. Paragonata al tutto, sembrava essere non più grande di un mignolo. Era la testa del capitano Darren. < Aiutami > le disse.
(trad. di Stefano A. Cresti)

Quarta di copertina:
L’umanità ha colonizzato l’intero sistema solare, spingendosi fino all’orbita di Nettuno grazie alla scoperta di un avveniristico motore a fusione. Jim Holden presta servizio sulla Canterbury, un cargo che trasporta ghiaccio attraverso gli infiniti spazi tra gli anelli di Saturno e la Fascia, l’arcipelago di asteroidi che si estende tra Marte e Giove. Incaricato di ispezionare il relitto di una nave spaziale, la Scopuli, sopravvivrà alla distruzione della Canterbury in seguito a un proditorio attacco nemico. Un fatto inaudito che porta la Terra, Marte e la Fascia sull’orlo della catastrofe planetaria. Nel frattempo, sull’asteroide Ceres, il detective Miller è impegnato nelle ricerche di Julie Mao, una giovane ribelle che ha rinnegato la sua famiglia sulla Terra e si è rifugiata nella Fascia. La ragazza sembra scomparsa nel nulla, ma le sue tracce portano dritto al relitto della Scopuli e a una vicenda di orribili esperimenti che qualcuno sta tentando di insabbiare, anche a costo di scatenare una guerra senza precedenti.

LEVIATHAN – IL RISVEGLIO (Leviathan Wakes, 2011) ha tutte le carte in regola per essere un successo anche in Italia.
Scritto da Daniel Abraham e Ty Franck, la coppia di autori statunitensi che si cela dietro lo pseudonimo James S.A. Corey e che vanta collaborazioni a vario titolo con un big del calibro di George R.R. Martin, questo corposo romanzo si presenta come una storia divertente e autoconclusiva, scorrevole, ricca di colpi scena e adrenalinica, che non fa mancare niente al proprio lettore: colonie spaziali, battaglie tra astronavi, sparatorie e massacri. Il tutto è condito da una protomolecola aliena, capace di alterare il DNA degli organismi viventi, trasformando gli umani prima in zombie vomitanti e poi rimodellandoli in "altro".
I due protagonisti, che si rimpallano l'azione da un capitolo all'altro, ispirano simpatia sebbene risultino a tratti convenzionali: un giovane capitano, diventato tale suo malgrado, ingenuo, idealista ma onesto, e un maturo ispettore di polizia cinico, disilluso dalla vita ma coraggioso e risoluto. Anche il "cattivo" di turno s'incarna nella figura nota dello spietato manager d'azienda, disposto a scatenare una guerra interplanetaria e usare milioni di esseri umani come cavie per un esperimento scientifico, pur di accrescere la potenza della propria multinazionale.
Nonostante non si possa parlare di capolavoro né di grande originalità, LEVIATHAN – IL RISVEGLIO ha il pregio di catturare la maggior parte dei lettori, specie quelli che cercano intrattenimento puro, senza perdere tempo con le disquisizioni pseudoscientifiche tanto care a molta hard science-fiction d'oggi. Per intenderci, non siamo lontani dallo spirito che ha animato John Scalzi quando ha scritto la serie Old Man's War o, prima ancora, C.J. Cherryh con il suo ciclo di Chanur.
Grandioso lo scenario che fa da sfondo alla trama, noto come The Expanse: un sistema solare in gran parte colonizzato dall'essere umano, con una misteriosa civiltà aliena annidata da miliardi di anni nelle profondità del cosmo. Sull'onda del successo del primo lavoro, la coppia di scrittori ha ambientato nello stesso universo altri quattro romanzi. La popolarità di questo ciclo è dimostrato dal fatto che il canale americano Syfy si è lanciato nella produzione di una serie tv a esso ispirata (The Expanse, per l'appunto) che dovrebbe ben presto arrivare in Italia: https://www.youtube.com/watch?v=27JmggM5GGQ.
Una space opera quindi piacevole e moderna, che soddisferà in primis i palati meno esigenti, ma che potrà regalare ore di avventura spensierata a tutte le categorie di lettori.
Non resta che sperare che la Fanucci pubblichi anche gli altri episodi.

James S.A. COREY, LEVIATHAN – IL RISVEGLIO (Leviathan Wakes, 2011), trad. di Stefano A. Cresti, Fanucci, collana Numeri Uno, pp. 603, 2015, prezzo 16,90 € (ebook 6,99 €).

Stefano Sacchini

Profilo di Humbert Read (prima puntata) a cura di Umberto Rossi

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Non conoscete Humbert Read? Non avete mai sentito parlare di questo misconosciuto scrittore  dei vecchi pulps? Non abbiate paura: ci pensa l'esimio prof. Umberto Rossi a raccontarvi, con la solita precisione e dovizia di particolari (e un pizzico d'ironia), la vicenda di un classico autore dei tempi di "Amazing Stories" e "Marvel Science Fiction".





Ricordo ancora la prima volta che Sandro Pergameno mi parlò di Humbert Read. All'inizio credevo mi stesse prendendo in giro, poi mi fece vedere quei pulp novel risalenti alla metà degli anni Cinquanta, acquistati a caro prezzo su Ebay da un collezionista californiano (e due colombiani), per una cifra che per poco mi fece cadere dalla poltrona.
“Sandro” gli dissi, “ma tutti questi soldi?”
“Evabbè ma è un investimento. Pensa che Slave of the Kzur l'ho comprato a quattromila dollari e ora se voglio lo rivendo a ottomila!”
Dopodiché cominciò a raccontarmi quel che sapeva lui di Read, e così fu che mi appassionai alla vita e alle opere di uno degli autori di fantascienza meno conosciuti ma sicuramente più curiosi che memoria di fantascientista ricordi. Feci le mie ricerche, mandai decine di email a studiosi e collezionisti e appassionati di tutti i continenti, tampinai illustri accademici a convegni e conferenze, entrai in gruppi FB dai nomi che ho paura a riportare, scrissi anche qualche lettera spedita per posta ordinaria e prioritaria, insomma, di tutto di più. La storia di Read e dei suoi romanzi e racconti ne usciva ancora più strana e ingarbugliata. Cominciai a trovare accenni alle sue opere un po' qua e un po' là; in una lettera di Philip K. Dick, in un'introduzione di Damon Knight, in un saggio giovanile di Fredric Jameson, in un commento su FB di Roger Luckhurst, in un tweet di China Miéville, in uno sfogo di Sergio Fanucci, un un momento di disperazione di Monicelli, in una chiacchiera all'osteria di Fruttero senza Lucentini. Sembrava che tanti avessero avuto a che fare con Read, ma non fossero particolarmente disposti a parlarne. C'era una certa reticenza, un certo dire-e-non-dire. Read, si capiva, era un argomento imbarazzante e anche un po' inquietante. E comunque nessuno ne sapeva veramente tutto, o abbastanza.
Trovavo solo frammenti, tessere di un puzzle di cui mancavano troppi pezzi.
Vi propongo insomma quel che sono riuscito a trovare. Spero che questo spinga altri studiosi e appassionati a continuare a cercare. Forse un giorno capiremo chi (o cosa) era veramente Humbert Read. Ma non so se crederci; giudicate voi.

Cominciamo allora dall'inizio, e cioè dal 1910, anno in cui Humbert Theophilus Sebastian Read nasce in una piccola città del Midwest, Lytoria, nello stato dell'Ohio. Nasce, pare, da una famiglia piuttosto ordinaria, il padre Julian impiegato in un saponificio, la madre Sylviana casalinga. Non fa notizia, o meglio non faceva allora, il numero di fratelli e sorelle (circa otto, ma non c'è accordo tra le fonti). Sicuramente il fratello maggiore Hugo parte per la guerra nel 1917 e muore dalle parti di Belleau Wood, tra una trincea e un cratere di granata. La notizia è talmente tragica per il padre che ci rimane secco per un infarto. Ecco dunque che a sette anni il piccolo Humbert si ritrova orfano, e la famiglia passa un brutto periodo di ristrettezze. In un piccolo scritto autobiografico Read dice che si mette a fare vari lavoretti per aiutare la madre e le sorelle e i vari fratelli, tra cui pescivendolo, apprendista falegname, gelataio, maschera in un cinema nonché giornalaio. Sono gli ultimi due lavori che ci interessano: è in un cinema di Pomona, in California (dove la famiglia si era trasferita nel 1920 per via dei reumatismi di cui soffriva la madre) che Humbert vede Viaggio nella luna di Meliés; ed è lavorando come giornalaio che scopre Modern Electrics, la rivista di Hugo Gernsback, che inizia a leggere con entusiasmo. Racconta lo stesso Humbert nell'introduzione al suo racconto “The Radio Terror”:

Il padrone del drugstore dove lavoravo aveva una collezione di Modern Electrics e The Electrical Experimenter e Science and Invention. Il che era piuttosto curioso, dato che non possedeva una radio. Comunque fu leggendo quella rivista e i numeri arretrati che mi prestava lui che mi appassionai alla fantascienza. E poi Gernsback si chiamava come mio fratello. Non sono cose che si prendono alla leggera.

Nel frattempo Sylviana Read ha avviato una fiorente attività come chiromante, cartomante, fattucchiera e paragnosta, aiutata dalle figlie gemelle Megan e Nagem (Julian aveva strane idee sui nomi, dato che tutti i figli maschi avevano un nome che iniziava per H). Erano i ruggenti anni venti, e nella California meridionale l'esoterismo andava forte, così forte che Humbert smette di fare tutti i lavori che capita e comincia a passare il tempo a leggere riviste di fantascienza, andare al cinema cogli amici (non molti, pare), e partecipare occasionalmente alle sedute spiritiche di sua madre, alle quali prendevano parte occasionalmente gente del cinema, come Tom Mix, Mary Pickford e Charlie Chaplin (ma la partecipazione di quest'ultimo è dubbia, in quanto l'unica testimonianza in merito è di Nagem Read che pare soffra di una leggera forma di Alzheimer precoce; tanto per dirne una, è convinta di essere figlia di Walt Disney). E qui abbiamo il primo mistero nella vicenda di Read: nel marzo del 1929 il giovane scioperato sparisce per circa due settimane, al punto che la madre segnala la sua scomparsa alla polizia. Esiste una registrazione del programma radiofonico Who saw him?, all'epoca molto popolare, nel quale Sylviana chiede notizie del figlio, ma si direbbe senza particolare apprensione. Qualche trafiletto esce sui giornali, poi Humbert viene trovato in stato confusionale nel deserto del Mojave da un camionista di origine sicula, tale Vincent Cammalleri, che dopo averlo dissetato lo accompagna al più vicino commissariato, anzi, siamo in America, all'ufficio dello sceriffo.
Per una settimana, a detta dei fratelli Herbert e Huey, Humbert farnetica in una lingua sconosciuta; a tratti torna a usare l'inglese, dicendo di essere stato rapito dagli alieni; ogni tanto dice frasi in spagnolo, italiano, russo, rumeno e serbo-croato, e nel sonno non di rado implora un misterioso “Great Pergamon”, implorandolo di risparmiarlo.
Pian piano però Humbert ritrova la lucidità, anche grazie alle cure di uno psicanalista ungherese segnalato alla madre da una delle star di Hollywood sue clienti (chi dice sia stato Rodolfo Valentino, chi Stan Laurel, la questione è aperta), il dottor Isztvan Sákiniy. Tutto sembrerebbe tornato alla normalità, quando sulla famiglia piomba come un'incudine la crisi di Wall Street. I Read sono rovinati, anche perché, consigliata dallo spirito di Adam Smith (evocato durante una seduta) Sylviana ha investito tutti i risparmi nelle azioni di una fabbrica di frigoriferi islandese, la Mikill mörgæs, poi risultata praticamente inesistente.
A questo punto c'è uno dei tanti buchi della vicenda. Per qualche anno si perdono le tracce non solo di Herbert, ma anche del resto della sua famiglia. Sylviana riappare intorno alla metà degli anni Trenta a New Orleans, dove si fa chiamare Madame Samedi e pratica il vudù; le gemelle Megan e Nagem incidono alcuni dischi di blues tra il 1934 e il 1936 e poi diventano coriste in un'orchestra jazz, per essere poi espulse quando gli altri musicisti scoprono che non sono di colore ma solo marronate col Nugget; riappaiono in seguito in raduni del Ku Klux Klan. Ma solo nel 1941 si hanno notizie di Humbert Read.
Nei giorni successivi all'attacco a Pearl Harbor il suo nome compare infatti nella lista dei marinai americani caduti. Stranamente viene dato come proveniente da Lucca. Che si tratti di lui comunque non ci sono dubbi; lo dichiara lui stesso in un breve testo autobiografico aggiunto in appendice a una sua raccolta di racconti, Flying Saucers Will Never Land in Pearl Harbor:

...ho preso parte anch'io alla guerra, come altri scrittori di fantascienza; mi ero arruolato nel 1940 ed ero effettivo sulla corazzata Arizona, tanto che quando esplose mi diedero per morto. In realtà il giorno prima ero andato in licenza e non mi trovavo a bordo quando arrivarono gli aerei giapponesi; quasi tutti i miei compagni morirono nell'esplosione

C'è qualche dubbio sulla versione di Read; qualche superstite dell'Arizona sostiene che Read era in gattabuia per una rissa a Honolulu. Comunque sia, il futuro scrittore sopravvisse al disastro e anche ai successivi quattro anni di guerra, per quanto non sia stato possibile ricostruire il resto del suo servizio militare.
Di certo c'è solo che nel 1943 John W. Campbell, direttore di Astounding, ricevette un dattiloscritto piuttosto spiegazzato in una busta gialla; si trattava del primissimo racconto scritto da Read, “The Threat of the Great Pergamon”. Campbell non dovette esserne molto entusiasta, se Isaac Asimov ricorda di averlo visto spuntare dal suo cestino della carta straccia. Asimov fu incuriosito dalla quantità di timbri postali sulla busta, tanto che la prese e li esaminò. Il plico pareva aver fatto mezzo giro del mondo prima di essere recapitato alla redazione della rivista, e Asimov lo fece notare a Campbell. “E già,” notò lui, “peccato che il contenuto sia spazzatura”.
Read stesso ammise, in una conversazione con Ron Hubbard ai tempi dell'interesse del primo nella dianetica, che i suoi inizi come autore erano stati difficili. Gli ci vollero tre anni per essere finalmente accettato da Planet Stories, col racconto “Sacknussem's Experiment”. Si tratta di una storia vagamente orrorifica, in cui il farmacista di una sonnacchiosa cittadina del Midwest propina agli ignari abitanti un farmaco che li rende proni ai voleri di invasori alieni. Qualcuno ha già notato che il racconto pare anticipare il romanzo The Body Snatchers di Jack Finney da cui è stato tratto il celeberrimo film di Don Siegel L'invasione degli ultracorpi, ma chi lo ha fatto notare a Finney ha rimediato di solito un cazzottone sul naso.
Segue una serie di racconti pubblicati su altre riviste, ma mai quelle dirette da Campbell. Read comincia a frequentare le conventions, ed è in una di queste, la sesta World Science Fiction Convention, che si tenne a Toronto, in Canada, nel 1948 che Read ebbe occasione di conversare con  Bob Tucker (alias Wilson Tucker). Lo scrittore dichiarò in seguito a Damon Knight, che stava redigendo un profilo di Humbert Read:

...a me sinceramente è sembrato un gran pallonaro. Insomma, diceva che era stato rapito dagli alieni, che era sopravvissuto all'affondamento dell'Arizona a Pearl Harbor, che poi era entrato nei servizi segreti e aveva svolto missioni in Birmania, in Corea e in Cina, che scriveva sceneggiature per la Metro-Goldwyn-Meyer e che per lui la fantascienza era solo un hobby. Poi mi ha detto che, anche se era tornato alla vita civile, ogni tanto la CIA lo chiamava per qualche missione o per addestrare gli agenti che dovevano operare nell'Estremo Oriente. Diceva di sapere il cinese, il coreano e il giapponese, ma insomma, siamo andati in un ristorante cinese una sera e lui s'è ostinato a parlare col cameriere in quello che per lui era cinese e il cameriere mica lo capiva. Poi Read ha detto che quello era di una zona arretrata della Cina e non capiva il cinese mandarino. Sarà. Il cameriere, mentre andavamo via, mi si è avvicinato e mi ha detto: “Tuo amico matto”.

Dopo l'apparizione di Read alla convention di Toronto, abbiamo un nuovo buco nero nella sua biografia. Knight sostiene che lo scrittore aveva avuto un contratto di insegnamento in un'università dell'Alaska, ma non si sono mai trovate tracce negli archivi dei college di quello stato. Philip K. Dick sostiene che Read all'epoca si faceva spedire dischi di musica country nel Nevada dal negozio dove Phil lavorava come commesso, ma insomma si sa come sono le sue lettere, vatti a fidare. Isaac Asimov sostiene di aver trovato una mattina d'estate Read che dormiva su una panchina di Central Park coperto con dei giornali, ma non ci metteva la mano sul fuoco. Appare in una foto scattata a Bogotà da un reporter americano nel 1950; un articolo di Le Monde del 1949 parla di H. Read, écrivain americain a Parigi, che incontra Sartre e Bataille. Addirittura una foto pubblicata sulla Pravda nello stesso anno mostra un uomo somigliante in modo impressionante a Read che assiste alla parata del 1° maggio sulla Piazza Rossa. Coincidenze?
Di certo tra il 1948 e il 1951 non escono suoi racconti su nessuna rivista di fantascienza, però Read in un'intervista raccontò che in quel periodo scriveva sotto pseudonimo perché convinto di essere stato messo sulla lista nera per le sue idee politiche. Fredric Jameson mi ha scritto in proposito che questa dichiarazione non lo convince molto perché non gli risulta che Read avesse alcuna idea politica, anche vaga e confusa.
Se la produzione di questo periodo viene pubblicata sotto un altro nome, quale sarà stato? Diversi storici della fantascienza se lo sono chiesto. Il parere di C.L. Moore:

Mi verrebbe da dire che le cose di Read erano pubblicate sotto lo pseudonimo “L. Ron Hubbard”, se non sapessi che Hubbard esisteva e come. Purtroppo. E poi, siamo onesti: anche Hubbard scriveva meglio di Read.

Il nostro riappare, dopo questo lungo silenzio, nel 1951, con la pubblicazione di un romanzo a puntate su Marvel Science Stories, una rivista che aveva interrotto le pubblicazioni nel 1941 ma che era stata risuscitata nel 1950. Il romanzo uscì in tre parti, dal numero di maggio a quello di novembre. Il fatto che Marvel Science Stories chiudesse i battenti l'anno dopo la dice lunga sul successo di Attack of the Kzur. Alla decima Worldcon, che si tenne a Chicago, il romanzo di Read vinse il premio come “trashiest sf novel”. Hugo Gernsback, l'ospite d'onore della convention, dichiarò che se la gente snobbava la fantascienza, lo si doveva proprio a romanzi come Attack of the Kzur; e queste parole vennero accolte da una standing ovation.
Eppure, quello era l'inizio di una incredibile carriera nel folle mondo dei pulp magazine.

(continua)

CRONACHE DI MONDO9 di Dario Tonani

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Cronache di Mondo 9
Autore Dario Tonani
Copertina e illustrazioni interne di Franco Brambilla
Pubblicato su Urania MILLEMONDI numero 72.

“In fondo forse è sempre stato così: l’umanità ha creato gli dei, specchio delle proprie aspirazioni e speranze, di nobili ideali ma anche delle proprie debolezze, paure, perversioni e malvagità. Li ha illuminati con le tenebre della propria anima trasformandoli in demoni della peggior specie. Li ha resi sostanza e perfino materia vivente, da essi si è fatta soggiogare fino alla schiavitù, pronta o rassegnata all’estremo sacrificio.”

Con Toxica, L’Algoritmo Bianco e Picta Muore, Dario Tonani ci aveva già svelato alcuni aspetti del suo lato oscuro, pennellando abilmente, con parole di inchiostro nero e senza stelle, le stesse inquietudini monocromatiche di Edvard Munch, affidandoci un messaggio di angoscia per un’umanità logora, stolidamente approdata in massa a tutti i gironi dell’inferno senza nemmeno aver avuto la buona creanza di attendere l’apocalisse e il giudizio universale. Ma lo aveva fatto ambientando le sue intuizioni originali in un degrado (già visto e già letto molte volte) di squallide e decadenti periferie urbane, fabbriche e centri commerciali in disuso, baraccopoli piene di umanità dolente, iconici e arrugginiti rottami su quattro ruote. Insomma, qualcosa diventato in qualche modo familiare e quindi paradossalmente quasi rassicurante, al punto da attenuare l’effetto dirompente dei suoi incubi di cartone animati o di programmi informatici letali, moderne droghe proditoriamente inoculate nelle menti umane.
Poi, un’ispirazione all’apparenza stravagante: scegliere come protagonisti immense navi deambulanti su decine, centinaia di ruote; creazioni di una civiltà che sembra non conoscere l’elettricità ma che, con la carpenteria e la meccanica di precisione, ha raggiunto vette eccelse. Mercantili che solcano, sfidandolo, un deserto sterminato e sterminatore su un remoto e non meglio precisato pianeta. Metalliche moltitudini, costruite per il commercio fra comunità umane le cui città altro non sono che oasi o, se preferite, atolli disseminati in un insidioso oceano di sabbia e di ghiaccio.
Non si sa bene come, questi bastimenti si sono evoluti, sono diventati esseri viventi e senzienti, autentici dominatori del pianeta, ciascuno col proprio carattere: spietati e demoniaci, ma anche vulnerabili o timorosi. Gli esseri umani hanno poca voce in capitolo. Tentano di sopravvivere in un ambiente oltremodo ostile, ma il loro destino è segnato: se non sarà il Morbo che infesta il pianeta a trasformarli in metallo vivente, ci penseranno le navi che, per sopravvivere, si nutriranno dei propri equipaggi o di chiunque capiti a tiro.
Ecco quindi servito un incubo tutto nuovo, fatto di ruggine, metallo putrescente, carne da macello, sangue emulsionato con olio lubrificante, in un’ambientazione di contrasti assoluti, dove agli abbaglianti deserti di sabbia o ghiaccio fanno da contrappunto le tenebrose viscere di metalliche creature semoventi. È un mondo costruito con immagini potenti e incisive che evocano le inquietudini di Dino Buzzati con il suo Deserto, i suoi racconti ed il suo Poema a Fumetti, le ossessioni di Stephen King, ça va sans dire, lo scabroso Metallo Urlante di Valerio Evangelisti e infine, forse per rievocare l’approdo a una dimensione più umana e rassicurante insieme ad un sentiero narrativo finalmente tracciato  (o forse solo per provocatorio divertimento) Frank Baum. Dicevamo, dunque, un mondo di immagini potenti e incisive che Dario Tonani, con maestria, assembla sapientemente e dispensa con martellante profusione, più interessato, nella concisione intrinseca dei racconti di cui sono costituite le singole Cronache, a sovraccaricare virtualmente i cinque sensi del lettore per coinvolgerlo senza scampo nella narrazione, e non tanto a offrire spiegazioni e costruire un’epica.

Cronache di Mondo9 raccoglie e vuole dare coerenza, integrandolo con raccordi redatti per l’occasione (gli Interludi), a un mondo di 9 racconti che si sviluppano nel tempo, con primi 4 (Cardanica, Robredo, Chatarra, Afritania) concepiti tra il 2010 e il 2012 e poi raccolti in “Mondo9” (Delos Books) e i 5 successivi, scritti (dopo un intervallo di tempo in cui Tonani si dedica ad altri progetti) tra il 2013 e il 2014 (Mechardionica, Abradabad, Coriolano, Bastian e Miserable) e pubblicati in formato digitale (Delos Digital). Un mondo che ha anche potuto beneficiare e arricchirsi dell’apporto entusiasta di altri scrittori che hanno proposto i propri spin off in un’antologia a essi dedicata (Tutti i Mondi di Mondo9– Delos Digital) e del contributo di diversi illustratori, tra cui spicca Franco Brambilla che, rapito dalle visioni di Tonani, ha dapprima realizzato e raccolto (in The Art of Mondo9) una serie di mirabili illustrazioni che ancor più impressionano dopo aver letto le Cronache, e poi partecipato al progetto di Millemondidisegnando non solo la copertina ma anche i 9 bastimenti che, incastonati nella narrazione, impreziosiscono quest’edizione.

Le differenze tra il primo e secondo gruppo di racconti sono evidenti, tanto che il Millemondiè suddiviso in 2 parti: la prima, MONDO9, comprende Cardanica, Robredo, Chatarra e Afritania, mentre la seconda, MECHARDIONICA, raggruppa Mechardionica, Abradabad, Coriolano, Bastian e Miserable.
Nei quattro racconti di MONDO9 prevale l’intento descrittivo sulla narrazione. È chiaro come essi non siano stati pianificati in un quadro organico, ma traggano la loro efficacia dalla potenza evocativa delle immagini, cifra stilistica propria di Tonani, e dalla volontà quasi esasperata di suscitare stupore e turbamento, presentando nel suo divenire un mondo alieno e ostile e i suoi scandalosi protagonisti: le famigerate navi.
I 5 racconti successivi, contenuti in MECHARDIONICA, rivelano l’acquisita consapevolezza delle ulteriori potenzialità di questo Mondo; la narrazione risulta pertanto più curata e gli esseri umani (con relative degenerazioni o evoluzioni), da deboli comprimari o semplici comparse che erano nella prima parte, assurgono al ruolo di coprotagonisti, le cui caratterizzazioni e vicende diventano un filo narrativo robusto quanto basta per poter iniziare a ipotizzare un potenziale planetary romance.

Tutto bene, dunque?
Cronache di Mondo9 potrebbe non piacere a chi predilige una narrazione agile e veloce in cui le descrizioni siano dispensate con una certa moderazione e caratterizzino con discrezione ma compiutamente luoghi e personaggi. Ciononostante l’abilità scrittoria di Dario Tonani potrebbe farvi cambiare opinione, almeno questa volta.
Potrebbe inoltre non convincere il tentativo (e mi riferisco soprattutto alla prima parte) di raccordare e rendere coerenti i 4 racconti, che tutto sommato potrebbero tranquillamente rimanere svincolati per costituire, senza interludi, un’antologia di per sé compiuta.
Infine, molte sono le cose non spiegate o spiegate a metà: cosa sia Mondo9, da dove provengano gli esseri umani che lo abitano e quale sia la natura delle loro strutture sociali, come abbiano potuto le navi diventare vive e senzienti, come si ibridino con la materia organica e come possano trasformare gli uomini in figure eteree e servirsene e così via. Ho trovato questa indeterminatezza alquanto difficile da giustificare, e c'è un solo  rimedio a questo, ovvero che Tonani pubblichi al più presto seguiti, preludi e prodromi a completamento del (è il caso di dirlo) panorama mondonoviano, così da costruire un planetary romance compiuto e appagante. 
Marco Corda

USCITE DELLA HYPNOS - WEIRD SCIENCE

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Weird Science! Incubi tra fantascienza e pulp

Puntuale e gentilissimo come sempre, Andrea Achille Vaccaro mi ha spedito le ultime uscite della sua casa editrice, la Hypnos. Il pacco dono che mi è stato recapitato dal postino un paio di giorni fa (per un appassionato e collezionista è sempre una gioia sentire lo squillo del citofono che annuncia l'arrivo di nuovi libri) consisteva di ben quattro volumetti. In attesa di recensire in maniera più approfondita le quattro opere, voglio presentare in dettaglio almeno il volume curato da Ivo Torello, dal titolo WEIRD SCIENCE (splendida la cover tipica dei pulp americani dell'epoca) e dedicato ai racconti  degli anni venti e trenta: si tratta di storie apparse soprattutto sulle riviste "pulp" americane dell'inizio del secolo e incentrate sulla tematica classica ma sempre attuale del rapporto tra scienza e società, tra potenzialità offerte dalla tecnologia e utilizzi sbagliati o malvagi. Certo, le storie raccontate dagli scrittori di fantascienza dell'età dei pulps sono assai ingenue, soprattutto dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi e molto schematiche nella trama: lo scienziato pazzo di solito è mosso da ambizioni di lucro o di potere, mentre l'eroe che gli si oppone, assistito in genere da una bella fanciulla, è senza macchia nè paura. A volte tuttavia è lo stesso scienziato a cadere preda ingenuamente della sua smania di scienza e dalla sua voglia di contribuire al bene dell'umanità o della sua famiglia. Rimane tuttavia una tematica sempre molto interessante e spinosa, e anche di recente un antologista come John Joseph Adams ha deciso di riportarla in auge con un volume di opere inedite dal titoloThe Mad Scientist's Guide to World Domination: Original Short Fiction for the Modern Evil Genius.
La scelta di Torello associa invece classici già noti al pubblico italiano, come IL GRANDE ESPERIMENTO DI KEINPLATZ di Arthur Conan Doyle (creatore di numerose storie fantastiche e fantascientifiche che forse meriterebbero una nuova edizione più curata...), o come HERBERT WEST, RIANIMATORE, di Howard Phillips Lovecraft, o ancora come LA MACCHIA di Nathaniel Hawtorne, meno noto di altri suoi racconti ma altrettanto valido nella sua dimensione di pathos umano, a storie inedite di autori tipici degll anni venti e trenta, come LA PIAGA DEI MORTI VIVENTI, di A.Hyatt Verrill, uscito su Amazing Stories nell'aprile del 1927 e dedicato al tema dell'immortalità e della resuscitazione dei morti (una delle primissime storie dedicate agli "zombie"), LA DIMENSIONE INFERNALE di Tom Curry, pubblicato su Astounding Stories nell'aprile del 1931 e incentrato sui mondi invisibili e sulla disintegrazione della persona fisica, IL MONDO IN UNA SCATOLA di Carl Jacobi, tratto da Thrilling Wonder Stories (febbraio 1937), che riprende un tema classico e arcinoto, e cioè quello dei mondi microscopici (portato all'apice del successo da Ray Cummings con il suo The Girl in the Golden Atom). Completa il volume SOTTO IL POLO NORD, di Ed Earl Repp, forse il più originale e curato dal punto di vista scientifico, che ci parla di un bizzarro esperimento che ha luogo proprio sotto il polo nord magnetico, con terribili conseguenze per la civiltà dell'uomo.
In sostanza una raccolta assai divertente e interessante, soprattutto dal punto di vista storico. 
Anche le altre uscite inviatemi da Andrea Vaccaro sono tremendamente interessanti per tutti gli appassionati del genere "weird" o "horror", a partire dal quinto numero delle rivista Hypnos, che contiene tra l'altro classici di Joseph Sheridan Le Fanu (una storia inedita) e Henry S. Whitehead, per passare al primo volume dei racconti di mare di William Hope Hogdson (TERRORE DAGLI ABISSI, a cura e con una erudita introduzione di un grande esperto come Pietro Guarriello), e per finire con una chicca eccezionale, NUOVI INCUBI, il primo volume, a cura di Laird Barron e Michael Kelly, di una serie che si pone l'obiettivo di raccogliere i migliori racconti dell'anno del "new weird".
SP

Hypnos 5 coverTerrore dagli abissiNuovi incubi



LA SAGA DI GERALT DI RIVIA di Andrzej Sapkowski

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Andrzej Sapkowski, nato a Lodz il 21 giugno 1948, è uno scrittore polacco famoso nel mondo grazie alla saga fantasy di Geralt di Rivia. Tradotta in dieci lingue, tale saga ha ispirato una serie di videogiochi iniziata con The Witcher nel 2007.
Dedicatosi alla scrittura dopo essersi occupato di economia, Sapkowski ha vinto cinque premi Zajdel Awards e due premi spagnoli Ignotus nel 2003.
Due antologie di racconti e cinque romanzi compongono la Saga edita in Italia da Edizioni Nord: "Il guardiano degli innocenti" (2010), "La spada del destino" (2011), "Il sangue degli elfi" (2012), "Il tempo della guerra" (2013), "Il battesimo del fuoco" (2014), "La torre della rondine" (2015) e "La signora del lago" (2015).
In un mondo immaginario popolato da esseri umani, Gnomi, Nani, Elfi e creature mostruose, si forma una corporazione di guerrieri, gli strighi, dediti a pratiche occulte con lo scopo di preservare le popolazioni dall’aggressività dei mostri sparsi su tutti i territori dei regni.
Geralt di Rivia, figlio di una maga e di un guerriero, viene cresciuto nell’antica fortezza degli strighi, la Scuola del Lupo, dove il maestro Vesemir opera una mutazione genetica nei giovani accoliti con l’uso di pozioni segrete, mutazione che mira a sviluppare e a potenziare al massimo i poteri di ognuno, fino a renderli sovrannaturali. Con l’aiuto di un medaglione d’argento che ha la peculiarità di vibrare in presenza di mostri e sortilegi, Geralt comincia così ad andare in giro per il mondo come cacciatore di mostri.
La sua è una narrazione che ha dell’epico, condotta da uno stile a tratti soffice ed evocativo e a tratti sferzante, doloroso; la prosa è minuziosa, molto curata. Gli eroi si muovono intrecciando le loro storie e i loro destini con l’inevitabile trascorrere del tempo, in un modo dalla forte componente celtica, ancora più marcata nei romanzi finali.
Nonostante i rimandi ad ideali ben riconoscibili, risulta chiaro che lo scopo non è trasmettere valori o presentare temi profondi o convinzioni personali, ma essenzialmente di essere uno svago il più possibile avvincente: “Lo scopo principale di un romanzo è quello di intrattenere. L’intrattenimento può essere, e spesso è, basso, irrazionale, primitivo, anche stupido. Non voglio dire che ho raggiunto la vetta (…). Ma sì, mi considero superiore al livello del suolo”.
È puro svago, evasione e null’altro, sebbene la ricchezza psicologica che delinea i personaggi sia evidente, una ricchezza che si innalza da un sostrato filosofico solido che a volte sfocia in un pessimismo ben interpretato dal linguaggio spesso brutale e perfettamente immedesimato nel periodo storico in cui si svolgono i fatti. È un tipico gergo medievale, che viene ampiamente utilizzato nei molti dialoghi che caratterizzano i suoi romanzi.
I personaggi fantasy di Sapkowski sono essenzialmente protagonisti di storie di potere dove bene e male sono spesso indistinguibili, di un cammino di riappropriazione di facoltà straordinarie che nemmeno loro sono pienamente consapevoli di possedere e che scoprono dentro di sé in un momento particolare della loro vita, o che devono riguadagnare dopo averle smarrite e riconquistarle con imprese eroiche che inducono il lettore a soffrire per l’eroe, che colpiscono nel vivo dell’immaginazione per diventare tormento quasi fisico.
Punti focali sono spesso guerra, conflitti religiosi, persecuzioni, rivoluzioni. Spesso accade che ci si trovi immersi nella miseria, nel sudiciume, nello sconforto generato da queste battaglie che colpiscono e annientano soprattutto la parte più debole, il popolo.
L’autore getta i propri eroi in situazioni scottanti, complicate, pericolose e li obbliga a fare delle scelte, senza risparmiare loro il tormento per gli sbagli commessi; essi stessi sono chiamati a compiere un viaggio quasi catartico, di evoluzione del proprio essere per raggiungere le vette inseguite, sia nella consapevolezza e nella maturazione interiore, che negli ideali più alti. E il tutto viene miscelato in modo da suscitare emozioni intense e contrastanti nel lettore.
Nulla dei personaggi è lasciato al caso: ci sono soggetti che all’inizio sono solo semplici comparse, ma che in seguito assumono ruoli chiave nello svolgersi degli eventi.
Nella fusione tra reale e fantastico sta una delle particolarità di Sapkowski: la fantasia trova solide basi nella realtà e a sua volta la realtà sfocia nella fantasia. Anche l’erotismo è un ingrediente indispensabile che accompagna il filo della narrazione, un erotismo che non è solo attrazione sessuale, ma si apre in contrasti, affetti, passioni, e che contribuisce a “sviluppare e far crescere pienamente l’eroe letterario”, renderlo incisivo e credibile.
Una lettura piacevole, intensa, che può senza dubbio donare soddisfazione agli appassionati del genere.

Artemisia Birch


HYPNOS NUMERO 5

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Quando uscì il primo numero di Hypnos, la rivista italiana di letteratura weird e fantastica, l’evento fu accolto con entusiasmo non senza, tuttavia, destare qualche dubbio sul futuro proseguimento dell’avventura editoriale. Le acclamazioni suscitate inizialmente dall’effetto sorpresa sarebbero scemate nei numeri successivi se il progetto non fosse stato davvero solido e innovativo come fu presentato nel 2013. Oggi, con l’uscita del quinto numero della rivista, accompagnato da un salto di qualità non indifferente riguardo al resto delle pubblicazioni della casa editrice Hypnos, siamo giunti a un livello di fiducia consolidato. Gli appassionati di nicchia sanno che possono contare su un lavoro serio, impegnato e aggiornato da parte della redazione.

La riscoperta di autori pressoché sconosciuti in Italia prosegue nel numero 5 attraverso la presentazione di Karl Hans Strobl, fondatore nel 1919 della rivista tedesca Der Orchideengarten che in qualche modo può considerarsi anticipatoria rispetto alla più nota Weird Tales, uscita nel 1923. Le curiosità sull’autore tedesco vengono soddisfatte dall’editoriale di Andrea Vaccaro e da un profilo d’autore dettagliato a cura di Alessandro Fambrini, insieme al racconto inedito “La moneta bizantina”.

“Solo in caso di disastro” è invece il racconto novecentesco di Henry S. Withehead, il «reverendo da paura» come lo definisce Walter Catalano nel profilo d’autore. La storia si riallaccia al racconto di Strobl nella rappresentazione di un orrore che nasce dall’interno e plasma l’esterno, che germina dalla psiche e invade la percezione. Sogno e realtà, suggestione e immaginazione si intrecciano sconvolgendo i sensi.

I racconti moderni sono affidati per i due terzi ad autori italiani, in virtù della vittoria a pari merito nella seconda edizione del premio Hypnos che ha visto trionfare Francesco Corigliano con “Ex machina” e Giovanni De Feo con “I pallidi”. I due racconti inorgogliscono la narrativa nazionale di genere  e contribuiscono a rendere il premio Hypnos uno dei più ambiti in assoluto. Da non dimenticare, a proposito, l’ottimo racconto “Il suo sguardo” vincitore della prima edizione, scritto da Moreno Pavanello e pubblicato su Hypnos numero 3.

Nathan Ballingrud è uno dei migliori esponenti del weird contemporaneo. Viene qui presentato con il racconto “I mostri del cielo”. È difficile analizzare la storia perché complesso e visionario è l’autore che l’ha scritta. In questo caso giungono in aiuto le parole di Andrea Bonazzi nel profilo d’autore corrispondente: Ballingrud effettua uno «strano rovesciamento della teoria, consolidata nello scorso secolo, che pone l’eccezione, il perturbante, la violazione di realtà come perno centrale della weird fiction», affrontando «temi e situazioni dell’animo umano solitamente troppo sconvenienti e dolorosi da discutere».

Per concludere, dopo avere già pubblicato la piccola antologia ebook La ricerca di Catherineche include cinque racconti – due dei quali sono inediti – di Joseph Sheridan Le Fanu, il numero 5 della rivista ospita un altro racconto inedito dell’autore. “Spalatro: dalle note di Fra Giacomo” è l’unico racconto scritto da Le Fanu tra il 1841 e il 1843. Apparve sul Dublin University Magazine sotto forma anonima – come ci fa notare un articolo di Danilo Arrigoni – e fu attribuito allo scrittore irlandese nel 1997. Abbiamo dovuto aspettare fino ad oggi per vederlo tradotto in italiano. Come dire? Meglio tardi che mai.

Flavio Alunni

ESCE IL NUMERO 8 DEL MAGAZINE

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E’ ormai consuetudine pubblicare prima di Natale, a mo’ di strenna, un nuovo numero del nostro magazine che raccolga il meglio degli articoli apparsi sul blog “Cronache di un Sole Lontano”, condito con i racconti italiani che ci sono sembrati più significativi tra quelli ricevuti. Come in passato, voglio subito ricordare che queste pubblicazioni, graficamente così belle e curate, sono merito unico dell’amico Tiziano Cremonini, la cui passione e bravura non cessano mai di stupirmi. La responsabilità delle scelte di quanto troverete all’interno è invece condivisa da Tiziano col sottoscritto: speriamo che anche questo numero piaccia a voi lettori come è successo per i precedenti.
Come spesso accade, l’avvicinarsi della fine dell’anno spinge appassionati e recensori, ovunque nel mondo, su blog e riviste, a qualche consuntivo sugli avvenimenti letterari dell’anno trascorso. Confesso di avere anch’io questa passione e quindi non mi esimerò dall’esprimere qualche considerazione sulle uscite fantascientifiche del 2015 nel nostro paese, preda ormai da molto tempo di una lunga crisi editoriale (e non solo).
Ciò nonostante qualche libro degno di nota è apparso anche in Italia. Quasi tutte le case editrici, grandi e piccole, che dedicano il loro impegno alla fantascienza, hanno presentato opere significative. Una lode dunque a tutti, da Mondadori a Fanucci, da Zona42 a Elara, da Delos a Della Vigna, da Hypnos  a Future Fiction, e così via. Ciò non significa che io apprezzi senza criterio qualsiasi cosa sia stata pubblicata in Italia, né che abbia le mie opinioni negative su certe traduzioni affrettate o malfatte. E’ tuttavia parte integrante del mio carattere provare, per il bene dell’editoria fantascientifica, a mettere in luce gli aspetti positivi della situazione.
Urania ci ha regalato un’annata assai valida, con alcune punte di spicco culminate con l’uscita sul Jumbo di Absolution Gap, terzo e conclusivo volume della trilogia della Rivelazione di Alastair Reynolds, e con i due Millemondi che raccolgono i migliori racconti di Fritz Leiber. Da ricordare anche il Millemondi dedicato al ciclo di Mondo9 di Dario Tonani, e il numero che raccoglie i due romanzi vincitori del premio Urania, Bloodbusters di Francesco Verso e L’impero restaurato di Sandro Battisti. Una perla imperdibile rimane Utopia pirata, l’antologia dei racconti di Bruno Argento, alias nostrano di Bruce Sterling, ambientati nel corso dei secoli nel nostro paese (il romanzo breve che dà il titolo alla raccolta è forse l’opera migliore, nella sua categoria, apparsa quest’anno).
Merita una citazione particolare anche Fanucci, che quest’anno è tornato alla grande nel campo della sf, portando in Italia due dei cicli più importanti e di maggior successo degli ultimi tempi, Ancillary Justice e Ancillary Sword della Ann Leckie, vincitore di tutti i maggiori premi dello scorso anno, e Leviathan, di James S.A.Corey, da cui è stata già tratta una serie televisiva di grande impatto.
Zona42 ha proseguito due serie che hanno già un seguito di aficionados nel nostro paese, l’ucronia di Effendi di John Courtenay Grimwood, e l’avventura spaziale del mondo di Virga, dai toni vagamente steampunk, di Karl Schroeder. Da segnalare anche  Arresto di sistema, forse il miglior romanzo di Charles Stross, autore di sf molto hard che qui riesce a coniugare thriller tecnologico e mondo della realtà virtuale.
Delos continua a rimanere un caposaldo per la fantascienza italiana con la pubblicazione di numerose ristampe di classici del nostro paese, tra cui opere di Vittorio Catani, Lanfranco Fabriani, Alessandro Vietti, e Giampietro Stocco, per citarne solo alcuni. Fantascienza italiana seguita con molta assiduità anche dalle Edizioni della Vigna di Luigi Petruzzelli, che ha presentato inoltre importanti classici della sf americana di Jack Williamson e Edmond Hamilton.
Hypnos di Andrea Vaccaro ha ampliato la copertura del mercato “weird”, soprattutto attraverso la pubblicazione dei volumi dedicati a William Hope Hogdson e ai migliori racconti del genere, per non parlare dei volumetti dedicati all’epoca dei pulp e curati da Ivo Torello.
E dunque buona lettura e tanti affettuosi auguri di Buon Natale e Buone Feste.

Sandro Pergameno

UCZ #150 - LE SABBIE DI MARTE di Arthur C. Clarke

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Urania Collezione #150, Luglio 2015:
Mondadori Editore
"Le Sabbie di Marte" (The Sands of Mars, 1951)
Traduzione: Maria Gallone
Copertina: Franco Brambilla
Disponibile in versione cartacea e digitale

Le osservazioni condotte da Mars Express, Mars Exploration Rover e dalla sonda Phoenix hanno confermato la presenza di acqua sul pianeta, concentrata maggiormente attorno ai poli.
E il protagonista di questo celebre romanzo di Clarke, che ha avuto l’onore di inaugurare i “Romanzi di Urania” e che oggi festeggia con un’edizione speciale il 150° volume della “Collezione”, non può certo dirsi stupito. Quando Martin Gibson sbarca sul pianeta rosso, infatti, lo trova già parzialmente colonizzato dagli uomini: ma i coloni non hanno mai visto l’ombra di un marziano.
Se dunque, malgrado tutto, i marziani ci sono, vuol dire che sono ben nascosti. E c’è poco da meravigliarsi che le immagini delle sonde, pur scattate dal suolo, non ne abbiano ancora rivelato 

                                                                    l’esistenza.
                                                                    (dalla quarta di copertina)










Il 10 ottobre del 1952 vedeva la luce la collana I Romanzi di Urania, diretta da Giorgio Monicelli che nel suo primo numero offriva ai lettori italiani un romanzo uscito poco meno di un anno prima negli U.S.A. , ovvero "Le Sabbie di Marte" di Arthur C. Clarke. Questo celeberrimo volume, illustrato in copertina da Curt Caesar, è divenuto il simbolo della storica collana della Mondadori oltrechè un pezzo molto ricercato tra i collezionisti.
Il numero 1 de I Romanzi di Uraniaè stato sottoposto a studi, analisi, è stato tema di dibattiti, di dissertazioni ed è possibile trovare, anche in rete, tutti i dati tecnici relativi al volume che permettono di distinguerne edizione, tipi e sotto-tipi (come ad esempio la copia UOR, ovvero la prima edizione originale e quindi la più pregiata, la UAN1 e la UAN 2, ovvero copie anastatiche che differiscono per alcuni particolari).
L'Urania n.1 è diventato in qualche modo anche il simbolo della fantascienza in Italia.




Come fa notare Giuseppe Lippi, nel profilo dell'autore che troverete in coda al romanzo , "...Giorgio Monicelli aveva deciso di guardare al presente della fantascienza, introducendola con un testo ben poco melodrammatico e anzi sobrio quanto può esserlo qualunque avventura di quel tipo. Clarke rappresentava la fantascienza del possibile, tecnologicamente esatta e sorretta da un'immaginazione di prim'ordine. I suoi racconti.... Prefiguravano una realistica storia dell'astronautica, concludendosi con una visione palingenetica in cui l'Umanità sarebbe approdata a una fase più matura dell'esistenza.".
Personalmente trovo azzeccatissima la scelta di Giorgio Monicelli: iniziare la neonata collana con un autore che sarebbe diventato uno dei più grandi ed insostituibile colonna portante della SF mondiale, un autore che ha saputo mettere insieme il lato più avventuroso della SF e quello più speculativo con un occhio di riguardo per la verosomiglianza scientifica, che ha legato il suo nome tanto a capolavori della Science Fiction quanto, in maniera più o meno diretta, alla scienza (i satelliti geostazionari...la Fascia di Clarke, l'ascensore spaziale, le molte previosioni azzeccate nei suoi romanzi), al cinema (con il capolavoro "2001:Odissea nello Spazio"), vincitore dei più prestigiosi premi del settore nonchè Grand Master della SFWA, considerato uno dei 3 grandi della Fantascienza (i "Big Three" sono Asimov, Heinlein e Clarke); citando ancora il profilo scritto da Giuseppe Lippi "non solo un maestro della fantascienza, ma un uomo le cui idee hanno forgiato il nostro presente e forse influenzeranno ancora il futuro".

Ammetto di non essere un grande amante di Arthur C.Clarke e di essermi avvicinato a "Le Sabbie di Marte" con un certo scetticismo: un autore che non mi fa impazzire , un testo datato 1951....
...eppure sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla lettura di questo scorrevole e breve romanzo!
Ovviamente in alcuni passaggi risente del peso dei suoi 64 anni, ma nonostante questo non si può non restare affascinati da "Le Sabbie di Marte".
"Le Sabbie di Marte"è il romanzo perfetto per il lettore digiuno di fantascienza che vuole avvicinarsi a questo mondo; al suo interno infatti vengono toccate le più importanti tematiche del nostro amato genere: c'è il viaggio spaziale (trattato sia dal punto di vista Hard che da quello Soft visto che Clarke tocca tanto gli aspetti tecnici del viaggio quanto quelli psicologici dei membri dell'equipaggio) , ci sono gli Alieni ed un'antichissima civiltà scomparsa, ci sono problemi scientifici (rendere Marte abitabile) e problematiche sociali (conflitti tra Coloni e Terrestri), ci sono le colonie Umane, c'è azione,mistero ed intrighi politici e ci sono spettacolari scenari cosmici.... E tutto questo è perfettamente miscelato all'interno della storia che non risulta mai pesante.
Insomma, per tutti i motivi su elencati, è un must per i fantascientisti italiani!


UCZ ed Arthur C. Clarke

Dopo aver inaugurato la mitica collana Urania, "Le Sabbie di Marte" va a segnare anche un altro numero particolare, un traguardo non da poco, ovvero il centocinquantesimo numero della collana Urania Collezione.
Clarke è tra l'altro uno degli autori più rappresentati su UCZ (secondo solo a Robert A. Heinlein) la quale ha pubblicato fin ora ben 6 romanzi ed una antologia di racconti.
Franco Brambilla, il bravissimo illustratore di UCZ, si è superato con la copertina di "Spedizione di Soccorso" che è,secondo il mio modesto parere, una delle più belle che lui abbia mai realizzato per Urania -Mondadori.



UCZ #014 La Città e le Stelle                   
UCZ #071 Spedizione di Soccorso (Antologia)
UCZ #096 Terra Imperiale
UCZ #112 Incontro con Rama
UCZ #123 Le Fontane del Paradiso
UCZ #143 Polvere di Luna
UCZ #150 Le Sabbie di Marte


   





Sfogliando l'UCZ #150 troviamo, in appendice al romanzo, un bel profilo dell'autore delineato dal curatore di UCZ, Giuseppe Lippi, intitolato Arthur C. Clarke su Marte; chiude il volume la Bibliografia Italiana di Arthur C. Clarke curata da Ernesto Vegetti e Andrea Vaccaro (e badate.... è una bibliografia lunga oltre 30 pagine!!).


Qui potete trovare la Scheda-Libro dell'UCZ #150 con relativo indice.

Vai a "UCZ INTRO: sfogliando Urania Collezione" per la lista completa dei volumi di UCZ ed altre informazioni sulla collana.


Arne Saknussemm
 















Millemondi Mondo9: Alcune Note

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Forse queste note arrivano un po' in ritardo, ma mi sembra doveroso dire qualcosa perché è la prima volta che viene pubblicato un Millemondi riservato a uno scrittore di fantascienza italiano, e non è un fatto che possa passare sotto silenzio nel nostro blog. Inoltre, avendo curato (non da solo, beninteso) un intero numero speciale di Science-Fiction Studies sulla fantascienza italiana, e avendo anche scritto qualcosa su autori italiani in questo illustre blogghe, non posso stare alla finestra a guardare in attesa che qualcuno si alzi e dica che ne pensa. Mi sento tenuto a dire la mia.

Ovviamente “la mia” non posso dirla da semplice lettore che legge solo per il gusto di farlo (beato lui!). Sono un critico e resto tale, quindi non me la posso cavare con una dichiarazione di gradimento o di mancato gradimento. Se cercate stellette, “mi piace/non mi piace”, “lo amo/me fa schifo”, allora lasciate stare. Qui non troverete niente del genere.

Su Mondo9 se ne potrebbe scrivere parecchio. Ma non voglio annoiare nessuno. Inoltre, avendo letto solo questo “romanzo” di Dario Tonani (le virgolette le spiego dopo), non mi sento qualificato per fare un discorso più ampio. Tonani non ha scritto solo Cardanica e Mechardionica (le due parti del Millemondi, rispettivamente una raccolta di racconti assemblati e un romanzo, ed ecco perché le virgolette precedenti), e ci vorrebbe qualcuno più ferrato nell'opera completa dell'autore per scrivere un saggio esaustivo; io mi limiterò a una serie di note di lettura. In inglese sarebbero definite “notes towards...”, ma restiamo in Italia.

Pere e mele. Dunque, prima cosa: non venite a seccarmi (o non andate a seccare Tonani) colla solita lamentela “questa non è fantascienza”. Già si disse che d'ibridi ce ne sono tanti, nella storia del genere; ma oggi sembra essere una tendenza piuttosto generalizzata: scrittori che vengono dal “mondo esterno” che infilano idee fantascientifiche nei loro romanzi e racconti, scrittori che pubblicano su collane e riviste di fantascienza romanzi e racconti dove non tutto appartiene al genere definito in modo restrittivo. Ma se Mondo9 non è fantascienza allora non lo sono neanche il ciclo di Eymerich e nemmenola trilogia di Bas-Lag di Miéville; e se qualcuno nota che in Mondo9 c'è parecchio horror (e c'è) gli farò notare che c'era in Lovecraft e pure, andando a guardare bene, nei romanzi di due straclassici della fantascienza come Pohl & Kornbluth.
Inoltre: nel Millemondi Tonani (chiamiamolo così) c'è molto surrealismo, varietà Brussolo. Certo che sì, ma perché, a parte Brussolo, ma nei classici più classici di Van Vogt non c'è un'atmosfera decisamente surreale? E non è proprio quella a costituire il fascino strampalato (a tratti) di Van Vogt? (E non ho neanche fatto due nomi di autori che mi stanno particolarmente a cuore, sennò certa gente si convincerà che non sono “esperto di X e Y”, ma “uno che ha letto solo X e Y”...)
In altri termini: nella fantascienza ci sono le mele, tanto amate da un nostro simpatico amico fruttarolo, ma spesso ci sono ibridi tra mele e pere nei quali le due componenti non si possono separare col coltello. E la tendenza attuale è quella del new weird e dello slipstream, due termini che (assieme ad “avantpop”, che ora va di meno) servono solo a indicare che le cose più interessanti si stanno verificando ai confini dei generi, nelle zone di intersezione, di contatto, di contaminazione (sarà una coincidenza, ma queste tre parole sono tutte fondamentali nel lessico della fantascienza, che parla spesso di intersezioni tra universit, contatti con alieni, contaminazioni biologiche...).
Tonani new weird? E perché no? Secondo me anche la camicia steampunk unta d'olio gli va stretta. E new weird sia.
(E poi scusate, ma un intero mondo alieno popolato di creature aliene non è più fantascienza? Da quando?)

Discontinuità. Tonani spiega come nasce il Millemondi: e si sente già leggendolo. Cardanicaè una raccolta di racconti indipendenti. Hanno in comune Mondo9, ma non i personaggi né l'azione. Mechardionicaè un romanzo a tutti gli effetti, anche se ha la cadenza di una storia a puntate, e l'autore stesso ne è ben consapevole. Qui s'ingenera un piccolo problema, a mio modesto avviso: quei lettori che non amano i racconti (e da noi ce ne sono mica pochi...) potrebbero mollare la lettura prima di arrivare alla seconda parte. Certo, Tonani ha cercato di assemblare, come prima si diceva, i racconti, e nella seconda parte fa occasionalmente riferimento ad essi; però temo che non basti per convincere una parte di lettori a continuare. Io non ho di questi pregiudizi, ma ripeto, non è questione dei miei gusti personali, ma di descrivere Mondo9 per quel che è. Non ci si meravigli quindi se tanti hanno lasciato perdere dopo qualche decina di pagine. Ovviamente si potrebbe dire a questi lettori che anche la Trilogia di Asimov funziona così, la prima parte è un montaggio di racconti evidentemente indipendenti, e anche un po' traballanti (cosa che a Tonani non accade, anche se ai suoi personaggi sì), poi il Dottore trova il fiato per articolare qualcosa di più ampio e complesso. D'altro canto si potrebbe dire che Tonani avrebbe fatto bene a saldare in modo più organico le parti di Cardanica. Io constato che ha fatto una scelta coraggiosa, e non c'è niente da fare, il coraggio lo apprezzo sempre.

Infodump. Non tutto è spiegato, in questo ciclo. Lo dice Tonani stesso, e lo ha detto spesso in scambi di opinioni su FB. Però vorrei fargli notare che la discontinuità tra i racconti di Cardanica, unita al fatto che talune cose non vengono mai spiegate, può ingenerare nella mente del lettore una tal confusione e una tal tenebra che quello alla fine molla tutto e passa a leggersi qualcos'altro. Anch'io sono contrario all'infodump bulimico, al fatto che nel bel mezzo di un'azione la vicenda s'interrompa e arrivino due o tre pagine di spiegazioni del perché e del percome. Però a mio modestissimo avviso Dario è stato un po' troppo parsimonioso. Qualche accenno in più, qualche raggio di luce in più ci sarebbe voluto. Ripeto, il fatto che certe caratteristiche di interni, esterni, mechardionici, umani non vengano mai spiegate del tutto non mi ha impedito di arrivare alla fine, ma sicuramente mi ha fatto penare un po' in certi punti, dove proprio non capivo cosa stava succedendo e perché; orbene, io sono abituato a procedere al buio, o con pochissima luce, e non mi spavento, ma certi lettori a quel punto chiudono il libro.
(Sia chiaro, non ritengo affatto che i mechardionici si possano o si debbano spiegare scientificamente; mi sta bene anche la magia, o una versione tonaniana della taumaturgia alla Miéville; però ancora non ho capito bene da dove sono usciti fuori e cosa possono o non possono fare; e un po' mi dispiace, perché sono tra le invenzioni più peculiari in Mondo9, di quelle che restano impresse.)

Globalizzazione anamorfica. Surreale, sicuramente, magico a tratti, allusivo, enigmatico, ma Mondo9 non sta tra le nuvole, anche se alla fine le navi imparano a volare. Mentre leggevo pensavo a quei disgraziati in Africa che smontano navi spiaggiate perché ormai inutilizzabili, senza precauzioni e protezioni, rischiando pelle e salute, per riciclare metalli e altri materiali di cui quelle carcasse sono fatte. Rischiano? Ma certo che sì, e rischiano perché qualcun altro faccia i soldoni; rischiano in modo folle e assurdo come i membri degli equipaggi delle navi che viaggiano senza posa su Mondo9. Insomma, per me questo è un romanzo della globalizzazione a tutti gli effetti, e se lo si guarda in controluce la sua assurdità (criticata da molti) non è più insensata del mondo in cui viviamo, dove di gente che deve fare lavori letali e devastanti ne gira anche troppa.

Not for everybody. Ci sono romanzi che piacciono pressoché a tutti e romanzi che piacciono a pochi. Diciamo i “classici” e quelli “di nicchia”. Mondo9 secondo me non appartiene a nessuna delle due categorie. Vogliamo dire che è un'opera controversa? Preferirei qualificarlo come romanzo “o-lo-ami-o-lo-odi”. Tonani ha delineato un mondo strano, surreale, brutale, eccessivo, senza compromessi. E quando uno non fa compromessi inevitabilemente piacerà a certi e non ad altri. L'ho verificato in diverse conversazioni su FB e fuori FB: ci sono gli appassionati di Mondo9 che lo difendono a spada tratta e quelli che neanche vogliono sentirne parlare. Come le Camel di una volta, probabilmente Mondo 9 è “not for everybody”. Be', il mio consiglio all'autore, in vista di una terza parte che pare essere stata già scritta, è: “continua per la tua strada”. Hai convinto il 48% dei tuoi lettori e respinto un altro 48%? Probabilmente se “ammorbidirai” le asperità di Mondo9, il suo lato horror, scontenterai i fautori e comunque non convincerai i detrattori.
(Però a chi non lo ha ancora provato dico: “cosa aspettate a leggerlo?” Se per caso fate parte di quel 48% di lettori che saranno catturati dalle pagine di Mondo9, perché farne a meno?)

Inoltre... Mi pare di essere San Paolo che spedisce epistole, ma perché no? Alla Chiesa di Segrate dico (ma sì, voglio dirlo a Giuseppe Lippi): avete fatto trenta, perché non fate trentuno? Finalmente un Millemondi di uno scrittore italiano; perché non un bel Millemondi di Evangelisti? Di Catani, anche? E mi spingo a sognare un Millemondi colla trilogia ucronica di Brizzi e coi tre romanzi più fantascientifici di Avoledo. Lo so, sono sogni, ma a volte s'avverano pure, eh?

Umberto Rossi

BREVE PANORAMICA DELLE USCITE FANTASY DEL 2015

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Noto che nel giro dei miei contatti sul web nessuno, al momento, si è espresso sulle uscite letterarie di genere fantasydel 2015. Provo quindi ad affrontare la questione escludendo, con un pizzico d'imbarazzo, le pubblicazioni italiane (che non conosco e chiedo scusa per ciò agli autori nostrani) e limitando le mie chiacchiere alle principali traduzioni di autori stranieri. Sicuramente me ne sono sfuggite molte ma non ho la pretesa di essere esaustivo. Desidero solo sottolineare quelle che sono state le luci, non molte a mio avviso, e le ombre del 2015.


Inizio con la Mondadori, che ha terminato la trilogia del "Mare Infranto" di Joe Abercrombie con la pubblicazione del secondo e terzo capitolo e, in attesa di "The Winds of Winter", ha spinto sull'acceleratore con il bravo George R.R. Martin presentando i suoi racconti (di fantasy e no) in varie antologie, da solo o con altri scrittori ("I Canti del Sogno" in due volumi e "La ragazza nello specchio e nuove storie di donne pericolose").

Da parte sua la Newton ha ristampato, riunendole in volume unico (forse non maneggevole ma sicuramente conveniente), la trilogia dell'Angelo della Notte di Brent Weeks e quella dei Fulmini di Mark Lawrence; ma non ha fatto mancare alcune novità, come "Gli spietati. La compagnia della spada" di Luke Scull (già conosciuto nel 2014 con "Gli oscuri. La compagnia della spada"), oppure "La maledizione della Torre Nera", seguito de "La Profezia della Torre Nera" di David Chandler. La Nord invece ha deliziato gli appassionati del polacco Andrzej Sapkowski con le uscite dei romanzi "La Signora del Lago" e "La Torre della rondine". La Rizzoli ha puntato sul francese Antoine Rouaud, con il libro "La via della collera", primo volume del ciclo "Il libro e la spada", mentre la Sperling & Kupfer mi ha sorpreso non poco, facendo uscire "L'Assassino. Il ritorno" (titolo originale: Fool's Assassin, 2014) di Robin Hobb, scrittrice sinora pubblicata dalla Fanucci.

Proprio con la Fanucci iniziano, secondo il mio modesto parere, i tasti dolenti dell'anno appena concluso. Quantitativamente le sue uscite fantasy del 2015 non raggiungono il numero di quelle del 2014, ed è meglio tacere della qualità se si esclude la riproposizione in ebook  del ciclo dei Drenai dell'indimenticabile David Gemmell. Né "Valour" di John Gwynne (che pure ha venduto bene) né "Il trono dell'ombra" di Django Wexler possono considerarsi romanzi memorabili e di Brandon Sanderson, da alcuni anni nome principale della casa editrice romana, si è visto solo "Firefight", secondo volume della serie Young Adult (più fantascientifica che fantasy) degli Eliminatori, iniziata nel 2014 con "Steelheart".

Messo a confronto con un'altra situazione il rallentamento della Fanucci è però poca cosa. Se i fruitori del genere fantastico da un lato gioiscono per la rinata Armenia (che ha ripreso in mano la monumentale serie de "La caduta di Malazan" di Steven Erikson) dall'altro non possono non preoccuparsi per il destino della Gargoyle. Le uscite del fanta-western"Red Country", firmato Joe Abercrombie, e della prima parte de "Il prisma nero" di Brent Weeks hanno fatto ben sperare. Poi, purtroppo, il nulla: le pubblicazioni sono praticamente cessate, fatta eccezione per un paio di uscite, probabilmente programmate da tempo, come il fantasy storico "The Moon and the Sun" di Vonda McIntyre, e "Chi teme la morte. La profezia di Onye" dell'autrice statunitense, di origine nigeriana, Okorafor Nnedi. Anche i contatti e il sito della Gargoyle si sono ammutoliti, improvvisamente e senza una spiegazione soddisfacente. Non ci resta che aspettare e sparare per il meglio. Senza la Gargoyle, che negli anni precedenti si è distinta per una serie di pubblicazioni interessanti e originali, il panorama italiano della letteratura fantasy sarebbe indubbiamente più triste, per non dire povero.

Stefano Sacchini





Robert David Jones, in arte David Bowie, fantascientista

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In queste ore in cui c'è il cordoglio universale per la dipartita di David Bowie (1947-2016), ci è sembrato il caso di riappropriarci del personaggio. Non della persona, che non c'è più; ma del personaggio che Bowie stesso aveva costruito nel corso degli anni, più di qualsiasi altra rock star e figura pubblica a mia conoscenza; perché il cantante attore e produttore era soprattutto l'interprete di se stesso, in una specie di mega-spettacolo che ha avuto nella sua morte il gran finale (ci vuole un certo talento teatrale per far uscire un nuovo album, peraltro molto atteso, e morire pochi giorni dopo, prendendo tutti di sorpresa; si vede che dai tempi di Shakespeare il teatro, in Inghilterra, è il vero sport nazionale).
Orbene, se è vero che Robert David Jones ha creato il personaggio di David Bowie (mai la scelta di farsi conoscere con uno pseudonimo fu più azzeccata, anzi necessaria), è anche vero che il personaggio aveva molto di fantascientifico, e che il suo autore (David Jones) la fantascienza la conosceva bene e l'aveva capita ancora meglio.
Ricominciamo dalle origini: 11 giugno 1969. Il primo successo vero di Bowie è la canzone “Space Oddity”, con la tragica fine del maggiore Tom, un astronauta che – a causa di un'avaria – resta in orbita a morire, ed esce dalla sua capsula per finirla in gloria tra le stelle (questa è la mia interpretazione del brano; il testo è sufficientemente allusivo e metaforico da consentire altre interpretazione, non ultima quella sarcastica dello stesso Bowie, che in “Ashes to Ashes” sostiene che Tom era semplicemente un tossico stroncato da un'overdose...). La canzone segna l'inizio della folgorante carriera di Bowie, ma se la mettiamo nel contesto di quegli anni come si fa a non ricordare gli astronauti morti di Ballard e quelli psicopatici di Malzberg? Come non vedere che la sua storia incarna quell'approccio ironico della fantascienza New Wave alle imprese spaziali coeve? Il 1969 è l'anno della luna, certo, ma anche l'anno dopo l'uscita di 2001 di Kubrick, dove l'impresa spaziale si trasforma in viaggio psichedelico e allucinato, in surreale delirio (reinterpretabile però sempre in termini assolutamente fantascientifici).
Ovviamente una rondine non fa primavera, ma “Space Oddity” è qualcosa di più di un volatile legato all'atmosfera; come non ricordare la versione live dall'orbita terrestre dell'astronauta canadese Chris Hadfield, suonata e cantata sull'ISS nel 2013 (anche se col testo un po' ammorbidito, fors'anche per scaramanzia...)?
Nel 1970 esce l'album The Man Who Sold The World, che secondo alcuni critici è il vero inizio del percorso musicale di Bowie (e compagni, perché in questo 33 giri è accompagnato da Mick Ronson e altri che dànno alle canzoni di Bowie quella potenza elettrica che le mette decisamente nella nuova ondata del glam rock; e questi musicisti saranno per buona parte degli anni Settanta la sua band). Non so se qualcuno ha riflettuto sul fatto che il titolo dell'LP altro non è che un calco di “The Man Who Sold The Moon”, un romanzo breve nientedimeno che di Robert Anson Heinlein, risalente al 1951; uno dei capitoli della storia futura che RAH andava costruendo in quegli anni, e uno dei classici della fantascienza di tutti i tempi. Coincidenza? Difficile crederlo, anche perché altre canzoni di questo album hanno a che fare con la fantascienza, come “Saviour Machine”, dove un presidente (forse degli Stati Uniti) fa costruire una “macchina redentrice”, della quale si dice “la sua risposta era legge/la sua logica fermava la guerra, dava loro cibo”; e c'è anche “The Supermen”, coi suoi echi lovecraftiani...
Nel successivo album Hunky Dory troviamo la canzone “Oh! You Pretty Things”, ispirata da Nietzsche, dove si fa riferimento all'imminente declino della razza umana, che aprirà a un'alleanza tra gli alieni e la gioventù della società attuale (almeno così la interpretano Roy Carr eCharles Shaar Murraynel loro libro su Bowie del 1981). Insomma, fin dalle origini del personaggio Bowie, in lui c'è qualcosa di decisamente alieno, non di questo mondo, e come non pensare alle tante figure di messia dallo spazio esterno di quegli anni, come (e due!) non pensare al Valentine Michael Smith che torna da Marte a portare la sua rivelazione/rivoluzione spirituale (e sessuale) sulla Terra in Straniero in terra straniera (1961) di Heinlein?
Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora è niente più che un prologo di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, l'album del 1972 che consacrò definitivamente la fama dell'artista inglese. Qui abbiamo a che fare con un vero e proprio concept album di impianto totalmente fantascientifico, perché fin dalla prima canzone, “Five Years”, ci viene detto che all'umanità restano solo cinque anni di vita, e si descrivono in modo assai convincente le reazioni alla terribile notizia. È in questo mondo condannato che si ambienta la storia della rock star Ziggy Stardust, protagonista dell'album, non in modo lineare e narrativo ma attraverso una serie di accenni nelle varie canzoni; Ziggy, che alcuni credono essere un alieno, è in realtà il portavoce dell'uomo delle stelle, che viene evocato nella canzone “Starman”, una figura messianica di alieno venuto a predicare pace e amore, del quale Ziggy è semmai il portavoce (la sua creazione è il tema della terza canzone dell'album, “Moonage Daydream”). Se l'uomo delle stelle è il Messia venuto dallo spazio (tema ricorrente in quegli anni, dentro e fuori la fantascienza), Ziggy è il suo profeta, e nell'epoca di Jesus Christ Superstar cosa può fare un profeta per diffondere il suo messaggio se non imbracciare una chitarra (possibilmente elettrica) e cantare sui quattro accordi di una rock song?
Ma il profeta rischia la vita, infatti Ziggy alla fine viene sacrificato dai suoi stessi fan, e questo non può non ricordare il destino di Cristo, anche se in una versione decisamente non ortodossa, come pure quello del protagonista di un altro concept albumdi quegli anni, Tommy (1969)degli Who, poi trasformato in film decisamente psichedelico da Ken Russell.
Anche nel successivo LP Aladdin Sane qualcosa di allusivamente fantascientifico si trova, come il titolo completo della canzone dalla quale deriva il nome dell'album: “Aladdin Sane (1913-1938-197?)”. I primi due anni sono ovviamente quelli che precedono rispettivamente l'inizio della prima e della seconda guerra mondiale; il terzo suggerisce che la terza potrebbe essere imminente (Aladdin Sane uscì nel 1973). E una certa atmosfera apocalittica, peraltro tipica degli anni Settanta, serpeggia nei testi delle canzoni di Bowie di questo periodo, per esempio in “Panic in Detroit”, il quarto brano della prima facciata (per chi ragiona ancora in termini di vinile), nel quale si allude alle rivolte urbane nei ghetti afroamericani delle metropoli statunitensi, alle Pantere Nere, a Che Guevara.
Segue un album di cover, Pin Ups, nella quale spicca un omaggio a Sid Barrett, una psichedelica versione di “See Emily Play” (e non credo di dover spiegare quanti echi fantascientifici si ritrovano nelle canzoni e nella musica dei Pink Floyd...), quindi, nel 1974, Diamond Dogs, altro LP dai toni drammaticamente apocalittici e fantascientifici, fin dalla prima canzone, “Future Legend”, con la visione di una Manhattan post-apocalittica rinominata Hunger City (città della fame), e la descrizione di creature mutanti, come “pulci delle dimensioni di ratti”, “ratti grandi come gatti” e gli abitanti umanoidi della città paragonati a "branchi di cani". La canzone che dà il titolo all'album parla di creature mutanti, i diamond dogs per l'appunto, teppisti/predoni metropolitani che da un lato anticipano i punk che di lì a poco sarebbero apparsi nelle metropoli inglesi e statunitensi, dall'altro escono evidentemente dall'immaginario fantascientifico di decadenza urbana che attraversa tutti gli anni Sessanta e Settanta, per sfociare nello Sprawl di William Gibson.
Ma quest'album ha riferimenti ancor più diretti all'immaginario fantascientifico: sulla seconda facciata compaiono tre brani dai titoli platealmente orwelliani, come “We Are the Dead”, “Big Brother” e “1984”. Il mondo immaginato da Bowie è assolutamente distopico, e i riferimenti, pur trasfigurati nei testi delle canzoni, inconfondibili: “we are the dead” è quel che si dicono Winston Smith e Julia in 1984 un attimo prima di essere arrestati dalla Psicopolizia; “1984” mette in scena l'interrogatorio di Winston da parte di O'Brian nelle viscere del Ministero dell'Amore; e “Big Brother” fa riferimento al finale del romanzo, quando Winston, ormai devastato dalle torture e dal lavaggio del cervello, giunge ad amare il Grande fratello (eh, sì, un tempo la gente dovevano costringerla, ora ci sono quelli che si sciroppano Il grande fratello volontariamente, e si divertono pure... o almeno credono di divertirsi).
Gli album successivi segnano la svolta di Bowie verso il soul, ma non sarà l'ultima trasformazione di un artista sempre in cerca di un'altra identità e di altre sonorità; quando altri musicisti dei primi anni Settanta venivano spazzati via dall'ondata punk e new wave, Bowie era sulla cresta di quell'onda, con album assolutamente al passo coi tempi come Low, Heroes e Lodger. Ma il suo lato fantascientifico, dopo il 1974, non ha tanto a che fare con la sua musica, quanto con il cinema. Esce infatti nel 1976 L'uomo che cadde sulla terra, diretto da Nicholas Roeg, che ebbe la felicissima idea di scegliere come protagonista David Bowie e non una delle star cinematografiche dell'epoca.
Il risultato è uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi, dal punto di vista stilistico anche più ambizioso del pur affascinante (e amarissimo) romanzo di Walter Tevis (che risaliva al 1963). Ci terrei a far notare che all'epoca c'erano registi che adattavano per il cinema classici della fantascienza e se li modificavano non era per farli diventare una versione futuribile di Fast and Furious, ma per farne qualcosa di ancor più intrigante e sconcertante. Bei tempi. E Bowie, nella parte dell'alieno metà messia metà tycoon Thomas Jerome Newton, è assolutamente perfetto; forse nessuno avrebbe potuto recitare quella parte meglio di lui, anche perché Newton è una sorta di Ziggy Stardust al cubo, quindi in pratica è una nuova versione del personaggio che Bowie era andato costruendo per anni. E che ci fosse un'identificazione profonda tra la rock star e il miliardario alieno lo si capisce anche perché l'album Station to Station (1976), quello che chiude la stagione soul dell'artista, reca in copertina proprio un fotogramma del film di Roeg (nonostante le musiche del film non abbiano niente a che vedere con ciò che Bowie andava incidendo in quel periodo).
Sia chiaro, non pretendo di essere un grandissimo esperto della vita e delle opere di  Robert David Jones; sicuramente chi ne sa più di me troverà ancora tanti altri richiami, immagini, allusioni nelle sue canzoni e nei video che le hanno accompagnate. Mi va di sottolineare, comunque, che Duncan Jones, figlio di Robert David (secondo nome addirittura Zowie, che sarebbe un insieme di Ziggy e Bowie...) è un affermato regista cinematografico che ha al suo attivo due pellicole di fantascienza, e cioè Moon (2009) e Source Code (2011); non avrà ereditato la voce del padre, ma la passione per la fantascienza direi proprio di sì. Infine, andatevi a guardare il video di “Black Star”, la canzone che dà il titolo all'ultimo (in tutti i sensi) album del Duca bianco: se non è fantascientifico l'inizio di questo onirico e inquietante cortometraggio, con l'astronauta morto, naufragato (chissà quando, forse già nel 1969) su un pianeta alieno...
Insomma, salutiamo David Bowie: uno di noi. Un vero fantascientista.

Umberto Rossi

OSCURE REGIONI di Luigi Musolino

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L'orrore è mutevole. Assume forme complesse, si rintana negli angoli bui delle cascine e nei fienili di campagna, fluttua nelle strade vuote delle città, quando l'ora è tarda e la foschia si alza dal terreno come un vapore malefico, che fa male ai polmoni.
L'orrore è una telefonata nel cuore della notte...

Nel colorato mondo della letteratura fantastica italiana una menzione speciale va fatta per gli scrittori piemontesi, in particolare per i paladini del genere horror. Tra questi, il sottoscritto ha recentemente scoperto Luigi Musolino (classe 1982), originario della provincia di Torino, autore della raccolta in due volumi OSCURE REGIONI (edizioni RiLL - Riflessi di Luce Lunare). L'impressione di essere davanti a una scuola del terrore in "bagna cauda" si è rafforzata: una scuola o, se si preferisce, un movimento di alta qualità, esuberante, vitale.
In questo caso, siamo di fronte a una antologia di venti racconti, uno per regione a partire proprio dal Piemonte, con la quale l'autore descrive gli orrori che da sempre circondano gli abitanti del Bel Paese e che questi, più o meno consapevolmente, non vogliono vedere. Orrori millenari che hanno le radici nel folclore nostrano e si celano non solo nelle viscere del sottosuolo, tra i resti delle antiche civiltà o nelle profondità marine (qui l'influenza del solitario di Providence è tanto palese quanto forte) ma anche dove meno te li aspetti: nelle realtà urbane di oggi e nella splendida provincia, ricca di tradizione, di luci e di ombre. Proprio il forte filo conduttore permette di leggere questa raccolta come fosse un romanzo o meglio un diario di viaggio.
Con uno stile brillante, a tratti raffinato, Musolino immerge il lettore in atmosfere quanto mai varie e al tempo stesso accurate - notevole l'attività di documentazione dell'autore sui miti regionali - dove l'elemento in comune è sempre un uomo qualunque, apparentemente privo di connotati speciali, calato nei panni del protagonista e proiettato contro la sua volontà in una spirale irrefrenabile di incubi e terrore. Raramente il finale è lieto.
Una lettura consigliata a chi apprezza il soprannaturale, la follia che irrompe nel quotidiano, le favole che improvvisamente si popolano di creature mostruose, sanguinarie e che, soprattutto, non lasciano scampo al malcapitato di turno.

Luigi MUSOLINO
OSCURE REGIONI. RACCONTI DELL'ORRORE, Vol. 1, edizioni RiLL - Riflessi di Luce Lunare, collana Memorie dal Futuro, pp. 154, 2014, prezzo 10,00.
OSCURE REGIONI. RACCONTI DELL'ORRORE, Vol. 2, edizioni RiLL - Riflessi di Luce Lunare, collana Memorie dal Futuro, pp. 158, 2015, prezzo 10,00.

Stefano Sacchini
 

INTERVISTA A ROBERT SILVERBERG di Fabio Centamore

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Tutti noi conosciamo le opere e la portata di Robert Silverberg per la storia della letteratura di fantascienza, forse non molti conoscono l'uomo. In questa intervista, che mi ha rilasciato qualche mese fa, ho tentato di farlo parlare di sé più che della sua opera. Tentativo riuscito in parte, il grande Bob non ha voluto aprirsi completamente (motivo per cui ho tenuto l'intervista nel cassetto). Oggi, dopo attenta rilettura, credo che quel poco che sono riuscito a tirargli fuori valga la pena di essere letto. E a voi lo sottopongo. Buona lettura.

Chi (o cosa) ti ha iniziato alla FS? Ci puoi raccontare delle tue prime esperienze con questo genere letterario?
Il mio primo contatto è stato con Ventimila leghe sotto i mari di Verne, che i miei genitori mi regalarono quando avevo circa dieci anni. Subito dopo, però, scoprii anche La macchina del tempo di H.G. Wells alla biblioteca pubblica. Successivamente, cercai di trovare altre cose del genere, così, non molto tempo dopo, appresi dell'esistenza delle riviste di fantascienza, “Amazing Stories”, “Planet Stories”, “Astounding Science Fiction”. Da lì in poi fui insaziabile.

Quanto sono importanti i tuoi studi universitari per la tua ispirazione? Quanto, invece, contano le tue esperienze dirette e le sollecitazioni derivanti dal nostro presente?
All'università ho potuto leggere i classici della letteratura mondiale, in particolare le tragedie greche, e ho anche imparato i concetti basilari di una struttura narrativa da essi; gli stessi concetti che ho messo in pratica da allora. Ho viaggiato molto nel corso di tutta la mia vita, ho visto culture e paesaggi alieni in prima persona; tutto questo ha avuto un valore enorme per la mia carriera di scrittore di FS. 

Pochi mesi fa (11 luglio) è stato l'anniversario della morte di
John W. Campbell. Che ricordo conservi di lui?
È stato una figura titanica, il vero dominatore del campo dell'editoria di FS quando all'inizio ne divenni lettore e anche dopo, quando ne divenni uno scrittore. Avevo vent'anni quando gli vendetti una delle mie storie per la prima volta, ero così eccitato per essere riuscito a a vendere una storia a John Campbell che non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte. Fu come aver ricevuto una benedizione direttamente da Zeus (NDR.: Giove).

Frederik Pohl e Isaac Asimov, due persone molto importanti per te. Cosa hai potuto imparare dal primo e cosa dal secondo?
Fred, come editor, mi spingeva continuamente a scrivere al meglio delle mie capacità. Non si sarebbe mai accontentato di una storia di qualità appena inferiore. Spesso era molto duro con me, perfino quando accettava una mia storia, eppure da lui ho imparato davvero molto. Isaac, così prolifico ed estremamente articolato nel suo lavoro, è stato invece un'ispirazione costante, un modello da seguire.

Nella tua lunga carriera c'è qualcosa che non sei riuscito a realizzare? Perché?
Credo di aver realizzato tutto ciò che mi sono imposto di fare — dapprima semplicemente riuscendo a pubblicare delle storie, in seguito riuscendo a creare qualcosa che potrebbe costituire un importante contributo all'attuale letteratura di fantascienza.

In Italia stiamo ora leggendo molte delle tue storie: Passeggeri, L'imperatore e la  ”Maula”, Manoscritto trovato in una macchina del tempo, La festa di San Dioniso, Tempo da leoni a Timbuctu. Cosa rappresentano queste storie per la tua carriera? Quale parte della tua ispirazione rappresentano? Insomma, cosa potrebbero trovarvi i lettori italiani?
Non saprei. Penso che queste storie, scritte in diversi periodi, rappresentino alcune delle mie migliori opere, ma sinceramente non saprei dare una risposta precisa alle tue domande.

Come è stato lavorare al film di Columbus, L'uomo bicentenario? Ti sei trovato meglio a scrivere per la serie televisiva Ai confini della realtà? Secondo te c'è una significativa differenza fra TV e cinema?
Non sono stato coinvolto direttamente nella realizzazione del film L'uomo bicentenario.  La sceneggiatura è stata tratta dal romanzo che ho scritto dalla novella di Isaac, tuttavia il mio unico contributo al film è stato visitare un paio di volte il set per assistere alla lavorazione. Inoltre, non ho mai scritto per Ai confini della realtà. Purtroppo l'unica delle mie storie utilizzate nella serie è stata sceneggiata da Steve Barnes.

Cosa puoi consigliare a chi volesse iniziare a scrivere FS? Esistono delle regole irrinunciabili per scrivere una buona storia di fantascienza?
La storia dovrebbe svolgersi su un livello umano — dovrebbe, cioè, trattare un problema che coinvolge profondamente i personaggi — il problema, inoltre, dovrebbe anche scaturire da un'idea speculativa. Idealmente entrambi i problemi, umano e speculativo, dovrebbero risolversi in un unico climax.

L'ultima volta che sei stato in Italia, cosa hai apprezzato di più? Cosa, invece, non ti è proprio piaciuto?
Ero in Liguria, mi è piaciuto davvero molto il cibo — non è stata una gran sorpresa, visto che adoro il cibo italiano. Fanno una salsa al pesto davvero meravigliosa in Liguria. Non mi è piaciuto trovare un bel po' di pioggia durante il viaggio. Di solito non dovrebbe piovere sulla costiera mediterranea a maggio!

Cosa ci puoi dire dei tuoi progetti futuri?
Dal momento che non sono più in attività come scrittore, non posso parlarvi di nuove storie a cui sto lavorando. Principalmente, mi tengo occupato creando nuove edizioni delle mie opere, sia negli Stati Uniti che negli altri paesi. L'anno prossimo (NDR.: 2016) cercherò di mettere insieme una raccolta contenente molte delle mie prime storie, per gli attuali lettori sarà come leggerne di nuove.

Fabio Centamore

Robot 76

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Con le feste natalizie e la fine dell'anno è arrivato nelle vostre case il numero 76 di Robot. L'uscita invernale della rivista edita da DelosBooks presenta firme autorevoli e racconti di pregio.
Come d'abitudine apre il volume un racconto premiato con lo Hugo: Il giorno che il mondo si mise a testa in giù di Thomas Olde Heuvelt, una storia originale seppur forse troppo lineare nello sviluppo. Degno di nota è anche Henriettadi Paolo Aresi, autore che ci ha abituato a storie in cui il mito dell'esplorazione spaziale ha un ruolo centrale e il fascino della scoperta e della frontiera trasuda da ogni pagina. In questo caso Aresi ci racconta di una scoperta che potrebbe cambiare le sorti dell'umanità. A seguire Massimo Soumaré si avventurà nei deserti di Mondo 9 in Kareena, mentre ne I vagoni di Trainville ventiracconti brevissimi (una pagina) si calano nelle atmosfere del mondo creato dall'immaginazione di Alain Voudì. Chiude il volume lo splendido Timbuctù, l'ora dei Leonidel grande Robert Silverberg, già pubblicato nella collana BDUSL, un pittoresco affresco ucronico in un'Africa che siede alla pari con le potenze mondiali al tavolo del potere.
Abbandonata la narrativa troviamo l'interessante intervento di Aliette de Bodarda Stranimondi e l'intervista ad Aldo Katayanagi, l'illustratore di Delos, che merita una menzione per una copertina fortemente evocativa. A seguire Umberto Rossici spiega perché la trilogia di Valis è (anche) fantascienza, mentre Sandro Pergameno accompagna il notevole racconto di Silverberg con un profilo d'autore sulla figura del grande scrittore.
Tirando le somme anche questo numero di Robot merita di stare nella vostra libreria, sia per una sezione saggistica che contiene, come in ogni numero, almeno un paio articoli di pregevole livello, sia per i soliti due o tre racconti meritevoli di menzione. Se da un lato l'idea di omaggiare le creazioni di autori della scuderia Delos con racconti brevissimi potrebbe alla lunga rivelarsi noiosa, dall'altro non si può non considerare che Delos continua a pubblicare diversi racconti vincitori dei principali premi internazionali. Se possiamo leggerli in italiano è grazie a Robot. Certo, non sempre tali racconti sono meritevoli e a volte ci si chiede come possano aver vinto premi così importanti, ma questo, oltre a non essere responsabilità di chi li traduce e li pubblica in Italia, non toglie che senza queste traduzioni rimarrebbe preclusa la possibilità ai lettori italiani di farsi un'idea su quello che viene considerato il meglio del panorama internazionale.

Vincenzo Cammalleri

L'UOMO CHE RICORDAVA TROPPO di Umberto Rossi

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Da amante della fantascienza e lettore onnivoro, non potevo perdermi l’uscita in ebook de “L’uomo che ricordava troppo”. Subito sono stato incuriosito dal titolo, poi ho avvertito il richiamo del nome dell’autore, Umberto Rossi. Che per chi non lo conoscesse (ma davvero?) è uno dei massimi esperti di P. K. Dick, nonché traduttore (parliamo, oltre a Dick, di autori del calibro di Joe R. Lansdale e Thomas Disch) e scrittore a sua volta di fantascienza.
La cover è evocativa, di forte impatto, con un Vittoriano dalle scale rosso sangue, e la breve sinossi: “Johann Hageström non aveva ricordi del suo passato. In compenso ricordava eventi che non erano mai avvenuti”.
Il romanzo è ascrivibile all'ucronia, ma leggendolo ci si rende contro che è una summa di molti generi: un contenitore che ospita universi paralleli, dimensioni alternative, elementi storici-politici dell’Italia degli anni '70, con personaggi politici che sappiamo essere morti e che invece sono vivi e nel pieno del loro potere. Inoltre si avverte un sottile filo rosa (una storia d’amore), e molto altro ancora; in poche parole, una serie di trame e sottotrame, di generi, che si intrecciano tra loro.
Si può dividere la storia in due parti: la prima è più lenta, con meno dialoghi e scene, e serve a introdurre il personaggio principale, Johann Hageström, un traduttore che si trova nella difficile situazione di avere dei vuoti di memoria riguardanti il suo passato; vuoti colmati daricordi ed eventi di una vita che sa di non aver mai vissuto, di giorni di guerra civile, bombardamenti e sparatorie che si alternano a momenti di quotidianità. A poco a poco, aiutato nella ricerca del suo passato dallo psichiatra Geldmann, Johann inizia a tenere un diario trascrivendo quei sogni dove si trova a vivere una vita passata, tra guerra, combattimenti, e a incontrare persone che sente di aver già conosciuto.
Umberto Rossi inserisce nel suo romanzo d’esordio (scritto 34 anni fa e finalista al premio Urania) moltissimi personaggi, tutti realistici, e riesce a fornire a ciascuno di loro una propria peculiarità. Oltre a Johann Hageström, traduttore e con un passato da scoprire (o da ricordare?), si fa la conoscenza di Ermete Speziali, Giovanna (donna che avrà un ruolo fondamentale), Matteo Bottai, (con la sua Ubiquitas Editrice) ed altri ancora; alcuni personaggi minori, altri no, ma tutti con un ruolo ben specifico. L’unica figura che sembra "sopra le righe"è quella del medico nazista Claubert, specialmente nel modo in cui parla. Presumo che sia una cosa voluta, per dargli un’immagine particolare (e in tal caso sono io che non l’ho colta).
Nella seconda parte le trame si moltiplicano e si incrociano, e bisogna prestare la massima attenzione. Ma per questo non c’è problema in quanto la tensione che l’autore crea non consente di staccarsi dalla lettura. Diventa necessario capire chi sia effettivamente Johann, dove vive e in quale epoca, e per farlo si deve arrivare alla parola fine.
C’è da rendere merito all’autore se nel leggere il romanzo si riesce ad avvertire la presenza di P. K. Dick (e non potrebbe essere altrimenti: l’humus del romanzo è completamente dickiano); "L’uomo che ricordava troppo"è onirico ma allo stesso tempo reale, spiazzante nel suo muoversi tra mondi e tempi diversi. A tratti mi sono fermato a pensare come potrebbe essere una trasposizione cinematografica e, devo essere onesto, credo ne verrebbe fuori un gran bel film di fantascienza. Le descrizioni di Roma, delle sue piazze e vie, dei parchi, varrebbero da sole il prezzo del biglietto.
In alcuni passaggi si avverte che è un romanzo scritto molti anni fa e successivamente riveduto, ma questo non toglie nulla al mio giudizio: lo consiglio sicuramente. Scoprirete così una lettura e una scrittura appassionante. Rimane solo da attendere la prossima storia di Umberto Rossi. Io sicuramente la leggerò.


L'UOMO CHE RICORDAVA TROPPO di Umberto Rossi 
edizione Delos, 3,99 euro ebook

ANDREA DI CARLO
 

David G. Hartwell (1941 - 2016)

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Si è spento nella notte tra il 20 ed il 21 gennaio, all'età di 74 anni, David G. Hartwell, personaggio di spicco nel mondo del Fantasy e della Science Fiction; la morte è giunta inaspettata ed improvvisa in conseguenza ad un'emorragia cerebrale.
Lascia la moglie (Kathryn Cramer) e quattro figli (2 dei quali avuti da un precedente matrimonio).
David G. Hartwell ha dato tanto alla SF e, nello specifico, ha dato tanto a me; voglio ricordarlo così... attraverso i suoi bellissimi lavori.




David G. Hartwell ha lavorato presso diverse case editrici tra le quali Berkley Putnam, Pocket e Tor Books; è autore di svariati saggi critici sulla SF e sul Fantasy; editore delle riviste CosmosThe New York Review of Science Fiction; direttore della World Fantasy Convention e co-amministratore del Philip K. Dick Award.
Hartwell è molto conosciuto per le sue antologie annuali contenenti il meglio della narrativa breve (SF & Fantasy) prodotta.
Le antologie "Year's Best SF" iniziarono ad uscire nel 1996 (e fino al 2002 Kathryn Cramer è stata la sua Co-Editor) e contano in tutto 18 volumi.
18 volumi che coprono l'arco temporale che va dal 1995 al 2012, anno nel quale Hartwell decise di interrompere la serie. L'intera serie è stata pubblicata da Urania.
L'equivalente Fantasy della serie degli "Year's Best SF"è la serie degli "Year's Best Fantasy", curata insieme alla moglie Kathryn Cramer dal 2002 al 2010.
Entrambe le serie si sono piazzate stabilmente nella Top Ten delle classifiche delle migliori antologie stilata dai lettori di Locus.
Per le sue svariate attività di editor Hartwell ha ricevuto oltre 60 nominations agli Hugo Awards, ha vinto svariati premi tra i quali lo Hugo (per 3 volte), il World Fantasy Award, l'SF Chronicle e lo Skylark.
Nella sua carriera ha anche scoperto, lanciato o valorizzato moltissimi autori. (Fonte Wikipedia)




Qui trovate un elenco delle opere di Hartwell tradotte in Italiano; l'elenco è incompleto, aggiornato fino al 2009 a causa della morte del curatore del catalogo, Ernesto Vegetti (morto nel 2010).
Qui invece trovate l'elenco completo della serie Year's Best SF.

Questo è il sito personale di Hartwell.




Arne Saknussemm








L'UOMO CHE RICORDAVA TROPPO di Umberto Rossi *

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Da amante della fantascienza e lettore onnivoro, non potevo perdermi l’uscita in ebook de “L’uomo che ricordava troppo”. Subito sono stato incuriosito dal titolo, poi ho avvertito il richiamo del nome dell’autore, Umberto Rossi. Che per chi non lo conoscesse (ma davvero?) è uno dei massimi esperti di P. K. Dick, nonché traduttore (parliamo, oltre a Dick, di autori del calibro di Joe R. Lansdale e Thomas Disch) e scrittore a sua volta di fantascienza.

La cover è evocativa, di forte impatto, con un Vittoriano dalle scale rosso sangue, e la breve sinossi: “Johann Hageström non aveva ricordi del suo passato. In compenso ricordava eventi che non erano mai avvenuti”.

Il romanzo è ascrivibile all'ucronia, ma leggendolo ci si rende contro che è una summa di molti generi: un contenitore che ospita universi paralleli, dimensioni alternative, elementi storici-politici dell’Italia degli anni '70, con personaggi politici che sappiamo essere morti e che invece sono vivi e nel pieno del loro potere. Inoltre si avverte un sottile filo rosa (una storia d’amore), e molto altro ancora; in poche parole, una serie di trame e sottotrame, di generi, che si intrecciano tra loro.

Si può dividere la storia in due parti: la prima è più lenta, con meno dialoghi e scene, e serve a introdurre il personaggio principale, Johann Hageström, un traduttore che si trova nella difficile situazione di avere dei vuoti di memoria riguardanti il suo passato; vuoti colmati da ricordi ed eventi di una vita che sa di non aver mai vissuto, di giorni di guerra civile, bombardamenti e sparatorie che si alternano a momenti di quotidianità. A poco a poco, aiutato nella ricerca del suo passato dallo psichiatra Geldmann, Johann inizia a tenere un diario trascrivendo quei sogni dove si trova a vivere una vita passata, tra guerra, combattimenti, e a incontrare persone che sente di aver già conosciuto.

Umberto Rossi inserisce nel suo romanzo d’esordio (scritto 34 anni fa e finalista al premio Urania) moltissimi personaggi, tutti realistici, e riesce a fornire a ciascuno di loro una propria peculiarità. Oltre a Johann Hageström, traduttore e con un passato da scoprire (o da ricordare?), si fa la conoscenza di Ermete Speziali, Giovanna (donna che avrà un ruolo fondamentale), Matteo Bottai, (con la sua Ubiquitas Editrice) ed altri ancora; alcuni personaggi minori, altri no, ma tutti con un ruolo ben specifico. L’unica figura che sembra "sopra le righe"è quella del medico nazista Claubert, specialmente nel modo in cui parla. Presumo che sia una cosa voluta, per dargli un’immagine particolare (e in tal caso sono io che non l’ho colta).

Nella seconda parte le trame si moltiplicano e si incrociano, e bisogna prestare la massima attenzione. Ma per questo non c’è problema in quanto la tensione che l’autore crea non consente di staccarsi dalla lettura. Diventa necessario capire chi sia effettivamente Johann, dove vive e in quale epoca, e per farlo si deve arrivare alla parola fine.

C’è da rendere merito all’autore se nel leggere il romanzo si riesce ad avvertire la presenza di P. K. Dick (e non potrebbe essere altrimenti: l’humus del romanzo è completamente dickiano); "L’uomo che ricordava troppo"è onirico ma allo stesso tempo reale, spiazzante nel suo muoversi tra mondi e tempi diversi. A tratti mi sono fermato a pensare come potrebbe essere una trasposizione cinematografica e, devo essere onesto, credo ne verrebbe fuori un gran bel film di fantascienza. Le descrizioni di Roma, delle sue piazze e vie, dei parchi, varrebbero da sole il prezzo del biglietto.

In alcuni passaggi si avverte che è un romanzo scritto molti anni fa e successivamente riveduto, ma questo non toglie nulla al mio giudizio: lo consiglio sicuramente. Scoprirete così una lettura e una scrittura appassionante. Rimane solo da attendere la prossima storia di Umberto Rossi. Io sicuramente la leggerò.



L'UOMO CHE RICORDAVA TROPPO di Umberto Rossi 
edizione Delos, 3,99 euro ebook


ANDREA DI CARLO

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